Il Sole 24 Ore 27 luglio 2002

"Forum sull'Europa"/Liberalizzare: l'Europa non ci aiuta

Un superministro per l'economia dei 15

Diventa necessario un DPEF comune ­ L'Eurogruppo va rafforzato e trasformato in una struttura permanente

Partiamo da una constatazione: dopo l'11 settembre gli Stati Uniti hanno reagito con un robusto programma di spesa pubblica e un'adeguata politica monetaria. Poi c'è stato il caso Enron che ha fatto crollare le Borse e ha minato la fiducia dei consumatori. Di fronte a tutto questo, l'Europa invece è rimasta ferma, non è nemmeno riuscita a dare aiuti significativi alle compagnie aeree. L'euro è tornato sì alla parità con il dollaro, ma nemmeno ora l'Europa riesce a raccogliere il testimone della ripresa mondiale. Perchè il Vecchio Continente è così debole sul fronte economico? C'è forse bisogno di un superministro europeo, di un "Solana" dell'economia dell'Unione?

SAVONA - Quando è nata l'Unione monetaria, tutti eravamo coscienti che l'Europa a 12 o a 15 non era certo quella che gli economisti chiamano una area monetaria ottimale: aveva la perfetta mobilità nel movimento dei capitali ma non esisteva la condizione più importante, la perfetta mobilità del fattore lavoro. Inoltre, la caratteristica dell'area monetaria ottimale è che le politiche economiche siano omogenee. Sulla moneta, siamo andati subito all'estremo varando la moneta unica; sul fronte fiscale, invece, gli Stati hanno mantenuto l'autonomia. Nel Rapporto della Fondazione Ugo La Malfa abbiamo analizzato le conseguenze di queste scelte: le economie europee fino al 1998 hanno avuto un processo di convergenza molto interessante. Adesso stanno riprendendo a divergere. Tutto ciò crea tensioni in una opinione pubblica che, dopo l'ingresso dell'euro, si domanda qual è il valore aggiunto dello stare insieme. Nel '92 era stato indicato un obiettivo. Fino al '98 gli italiani sono stati tassati duramente, e tutto ciò è stato accettato. Adesso bisogna darci un nuovo traguardo.

AMATO - Il mio punto di partenza è lo stesso di Savona. Sapevamo che non era un'area ottimale ma abbiamo sfidato il futuro. Gli americani non facevano che dirci: da noi quando finisce il lavoro nel Kentucky si prende la macchina e si va nel Missouri. In Europa non è così semplice. Per mille ragioni, a partire dal fatto che tutto possiamo omogeneizzare in Europa fuorché la lingua e abbiamo mille altri problemi ancora irrisolti, ad esempio la portabilità della pensione. Ma facemmo questa scommessa perché contavamo sulla nostra capacità di metterci alla frusta. Guido Carli questo modo di operare lo aveva teorizzato anche per l'Italia. In realtà stiamo arrivando a una Convenzione alla quale viene chiesto di configurare alcuni dei passi avanti necessari per rimuovere quelle ragioni che hanno portato alla crescente divergenza successiva al '98. Siccome non daremo all'Europa una forma di gerarchia verticale — perché questo sarebbe addirittura al di là del modello degli Stati federali — attiveremo una competizione tra le varie nazioni.

Come si possono evitare altre divergenze e, piuttosto, attivare una concorrenza nel perseguire obiettivi comuni?

AMATO - È qui che l'attuale congegno intergovernativo, cui è largamente affidata l'Europa, ha dimostrato di non funzionare. Non produce né l'obiettivo, né la tensione necessaria a farlo realizzare.

LA MALFA - Il problema è che quella europea è una costruzione asimmetrica. Quando l'economia tira, lo squilibrio tra il coordinamento della politica monetaria e l'assenza di strumenti di politica economica non è particolarmente rilevante. Il problema si avverte quando il Governo americano dà indicazioni di politica economica alla Fed e l'Europa non ha alcuno strumento equivalente. L'euro presupponeva che si mettesse in moto un analogo processo unificativo delle politiche economiche. Nelle attuali condizioni, l'Europa è abbandonata al traino Usa.

SALVATI - Con il senno di poi, l'Unione monetaria è stata un'operazione di gran lunga meno complessa rispetto al governo dell'economia. L'esperienza di cambi fissi l'Europa l'aveva già fatta in precedenza. L'unica decisione politica fu di rafforzare l'intero quadro delle politiche della concorrenza. La difficoltà era fare il "Treasury", perché quello è un atto politico. Negli Usa Greenspan alza il telefono, chiama il suo omologo al Tesoro e si mettono d'accordo. Appartengono allo stesso sistema politico, normalmente allo stesso partito, sono responsabili davanti allo stesso elettorato. È il Tesoro che dà l'impulso, le grandi decisioni sono prese insieme. Da noi, se Duisemberg volesse consultarsi, dovrebbe chiamare dodici persone.

"Super-stato", "Federazione di Stati nazione", "Europa minima": come affrontare dal punto di vista istituzionale i problemi di governance che l'Unione mostra non solo sul fronte economico?

LA MALFA - Cito dal nostro Rapporto. Abbiamo individuato tre priorità: occorre rivedere il Patto di stabilità, rafforzare le competenze dell'Eurogruppo, infine, vanno ampliati i compiti della Bce, in modo che la gestione degli aggregati monetari favorisca il più possibile la crescita dell'economia.

SAVONA - Diamo alla banca centrale europea lo stesso mandato che ha la Federal Reserve. Gli obiettivi che persegue Greenspan sono equilibrati tra sviluppo e stabilità: non come succede con Francoforte, dove lo sviluppo è subordinato alla stabilità. È una scelta obbligata. Anche perché, se vuoi competere internazionalmente, tu devi avere le stesse strutture, anche monetarie, del Paese leader. Questo è il primo punto. Per quanto riguarda l'Eurogruppo, non è possibile oggi trasferire la sovranità fiscale, ma se si rafforza il G-12 si possono fare importanti passi verso il coordinamento.

SALVATI - Cominciamo a trasformare l'Eurogruppo in una struttura permanente, con un insieme di uffici che tengano i contatti con tutti e con un insieme di strumenti a disposizione, quanto meno di tipo macro più elementari. Così non si toccheranno i sancta sanctorum, come la legislazione del lavoro e la politica del welfare che incidono sulle peculiarità della politica dell'offerta e che, in qualsiasi concezione del federalismo, devono comunque essere lasciati ai singoli Stati nazionali.

AMATO - Rafforzare l'Eurogruppo è una necessità inevitabile che corrisponde all'interesse di ciascuno dei suoi componenti. Il vero problema può essere nei rapporti tra Eurogruppo ed Ecofin. Se si avrà poi il coraggio di prendere atto che qui si tratta di beni comunque europei e non nazionali, si potrebbero far definire i criteri comuni dalla Commissione e farli arrivare di lì ai ministri. La Commissione può diventare autore del Dpef europeo.

Lei quindi propone un Dpef europeo?

AMATO - È di tutta evidenza che si devono fare dei passi avanti specifici anche nella parte che riguarda il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie. Ho appena scritto un articolo nel quale ipotizzo un "Dpef europeo". Si possono fare dei passi avanti significativi che vincolino i bilanci nazionali a criteri comuni che dovrebbero venire da organi comunitari e non da un negoziato intergovernativo tra i ministri dell'Ecofin.

So perfettamente che la debolezza dell'Europa è legata anche a politiche microeconomiche. Ma la microeconomia è affidata ai capitali e i capitali non vanno dove le politiche macroeconomiche non sono credibili. Sarebbe difficile ritenere esauriente un giudizio sulla debolezza dell'economia europea in questi anni se dimenticassimo che la grande Germania, che aveva guardato con diffidenza le difficoltà che incontrava l'Italia alle prese con una "questione meridionale", da quando se l'è trovata in casa si rende conto quanto sia difficile da risolvere. Cinquant'anni di comunismo possono essere non meno malefici di secoli di storia di un'economia dualista come la nostra.

Allora il comunismo non è solo una ossessione di Berlusconi...

AMATO - Lui magari lo vede dove non c'è. Ma lì c'è stato e se ne scorgono davvero le tracce.

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ROMA. L'Europa ha bisogno di un Solana dell'Economia? Un super-ministro che, dopo l'11 settembre e nella grave crisi in cui si dibattono le Borse mondiali, provi a invertire la rotta del Vecchio Continente? In un Forum presso la redazione romana "Il Sole-24Ore" ha girato questa domanda a Giuliano Amato, vice presidente della Convenzione, agli economisti Paolo Savona e Michele Salvati, e al presidente della commissione Finanze della Camera, Giorgio La Malfa. La risposta, con qualche distinguo, è pressochè identica: un vero coordinamento dell'economia europea è indispensabile, ma perchè ciò avvenga va chiusa la stagione dei "congegni intergovernativi", c'è bisogno di un governo politico che sappia esprimere valori e sovranità. E che sappia dare ai cittadini europei un nuovo traguardo, qualcosa di simile a quello che è stato l'euro negli anni '90. Quale può essere l'obiettivo? Non ci sono dubbi: il lavoro, lo sviluppo, insomma gli impegni solennemente assunti al vertice di Lisbona del 2000 ma non ancora onorati.

Per procedere in questa direzione è tuttavia indispensabile porre l'assetto istituzionale europeo in condizione di realizzare ciò che promette. La vera difficoltà — rileva Salvati — è creare un Treasury europeo, un ministero dell'Economia in grado di tracciare la politica economica, interloquendo anche con la Banca centrale europea. Ecco dunque che la riflessione si sposta sulle riforme che sarebbero urgenti e necessarie.

A cominciare dal Patto per la stabilità e la crescita. "È preferibile cambiare i patti piuttosto che violarli", osserva Giorgio La Malfa. Il Patto va reso più flessibile, per escludere le spese per investimenti dal calcolo del deficit. Al tempo stesso occorre rafforzare i poteri dell'Eurogruppo e rivedere i compiti della Bce in modo che la gestione degli aggregati monetari favorisca il più possibile la crescita dell'economia.

Amato, tuttavia, vuole prima vederci chiaro. Va bene discutere degli indicatori che dovranno entrare nel Patto, a condizione, però, che non venga in alcun modo minacciata la solidità delle finanze pubbliche. Perchè allora non incaricare la Commissione di mettere a punto un vero e proprio "Dpef europeo", propone il vicepresidente della Convenzione? Servirebbe a vincolare i bilanci europei a una serie di criteri e indicatori comuni.

Tutti d'accordo sul fatto che finora l'Europa ha fatto poco sul fronte delle liberalizzazioni. Il rischio è che quei margini di flessibilità non più consentiti dal cambio si spostino interamente sulla politica fiscale, con rischi seri per l'equilibrio finanziario dell'area. Il "Patto per l'Italia" è uno strumento utile, anche se Amato sottolinea come sia fondamentale discutere ora di quale sia il grado di protezione sociale che l'Europa ritiene comunque irrinunciabile per fronteggiare la concorrenza. "Si può benissimo toccare l'articolo 18 ma a patto di mettere mano all'intero sistema del welfare italiano", aggiunge Salvati. Per La Malfa, l'aver fissato l'inflazione programmata del 2002 all'1,4%, quando la media in Europa è del 2%, offre al nostro Paese una chance per ottenere un importante vantaggio competitivo. Quanto ai tempi della Convenzione europea, Amato ritiene che si debba chiudere nei termini previsti e che, dunque, possa essere un secondo Trattato di Roma a ridisegnare l'architettura della nuova Europa.

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Liberalizzare, l'Europa non ci aiuta

Un altro fronte sul quale l'Europa latita è quello delle liberalizzazioni.

SALVATI - Non c'è convergenza su nulla. Non vedo questa Europa che liberalizza. Noi abbiamo liberalizzato poco, gli altri hanno liberalizzato meno.

LA MALFA - Il rischio è che la flessibilità che i governi avevano quando potevano manovrare sul tasso di cambio, se la ricostruiscano usando lo strumento fiscale. È quello che ha fatto l'Irlanda, che invece di svalutare la moneta, ha "svalutato" il prelievo fiscale. Detassando, ha adottato una politica di attrazione degli investimenti. Ecco il vero problema.

Attenzione però: alla lunga, tutto ciò scasserà il Patto di stabilità. Già sta avvenendo. In fondo Paesi fuori linea come Francia, Italia e Germania, hanno messo in campo riduzioni fiscali, in risposta ai bisogni dei loro cittadini, ma anche per attrarre capitali dall'estero. Da qui nasce un ulteriore elemento di divisione all'interno dell'Europa, che ha strette connessioni anche con l'assetto istituzionale che la Convenzione deciderà di adottare.

AMATO - È un circolo vizioso nel quale siamo caduti, perché una virtuosa implementazione degli obiettivi di Lisbona non avrebbe messo la Germania sulla difensiva sulla questione degli aiuti di stato e su altre soluzioni che erano il suo modo per ammortizzare le conseguenze sociali di quello che le stava accadendo.

E la Francia?

AMATO - Probabilmente non avrebbe cambiato la posizione della Francia, perché la Francia ha, ahimè, ragioni non pragmatiche come quelle tedesche ma profondamente culturali per attribuire al pubblico una capacità benefica, che ha radici dottrinarie condivise. Però è certo che in un concerto europeo, nell'insieme più favorevole alle liberalizzazioni, la posizione francese sarebbe stata più difficile da mantenere.

Fatto l'Euro, ora la Governance politica

Amato: troppo lontani dagli obiettivi ­ "Close to balance? Sembra focherello, focherello"

Dopo l'euro, la vera scommessa per l'economia europea è lo sviluppo e l'occupazione. Anche in questo però sembra che l'Europa non riesca a trasformare gli impegni, più o meno solenni, in decisioni operative.

AMATO - Non è vero che negli anni successivi alla moneta unica l'Europa non abbia cercato di darsi degli obiettivi. A Lisbona, appunto, cercò di darseli e li indicò anche: diventare nell'arco di dieci anni, l'economia fondata sulla conoscenza più competitiva del mondo. Ma i presidenti di turno successivi a Guterrez se la sono dimenticata Lisbona. E ciascuno ha cercato di imporre delle sue priorità senza peraltro avere poi il tempo di realizzarle, creando quindi una assurda inflazione di promesse a fronte di una totale avarizia di realizzazioni. In un sistema, poi, in cui sono ancora troppe le decisioni all'unanimità, questa avarizia era assicurata. Ora noi abbiamo il compito fondamentale di rimettere l'assetto istituzionale europeo in condizione di realizzare ciò che promette. Il Governo ha perfettamente ragione quando dice che negli obiettivi di Lisbona c'è il 70% di tasso di occupazione, non il 52-53% al quale siamo tuttora ancorati. Non a caso, secondo me, Lisbona è rimasta finora incompiuta.

Giorgio La Malfa ha accennato all'opportunità di rivedere il patto di stabilità e di crescita. Sull'argomento, com'è noto, vi è ampio dibattito all'interno dell'Unione. Qual è la vostra opinione?

LA MALFA - Vorrei aggiungere che il Patto di stabilità va rivisto per tenere conto del momento congiunturale e soprattutto per escludere gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit, magari prevedendo una sorta di bollino europeo sulla golden rule per decidere quali investimenti ammettere. Una competenza che dovrebbe essere affidata alla Commissione europea. È preferibile cambiare i patti piuttosto che violarli. In questo senso, l'accordo di Siviglia non ci pare gran cosa. Se si deve cambiare è meglio stabilire che si cambia la regola, non che la si viola un po'.

SALVATI - In effetti sarebbe meglio quella che Keynes chiamava "a bit of intelligent discretion", piuttosto che regole fisse, stupide per definizione.

SAVONA - È politicamente costosissimo continuare a viaggiare con dei vincoli numerici strettissimi per poi affidarsi a delle deroghe nel momento in cui non si riesce a centrare quei target. Si mandano messaggi sbagliati. Sono due anni che la Bce si prefigge degli obiettivi sull'inflazione e sulla massa monetaria e poi non li raggiunge mai. In questo modo davvero si distrugge la propria credibilità. Ne sono convinto: è certamente meglio non indicare dei target.

AMATO - Io però vorrei, per così dire, vederci veramente chiaro. Sono pronto a discutere quali indicatori debbano entrare nel Patto di stabilità perché in effetti siamo tutti ancorati a dati molto parziali. Però voglio avere la certezza che l'insieme degli indicatori scelti non possa essere poi utilizzato per minare, senza che ce ne accorgiamo, la solidità delle finanze pubbliche. Temo che qualcuno, indotto dalle vicende quotidiane della difficile vita di governo, potrebbe trovarvi invece un alibi per scassare le finanze pubbliche.

A quali indicatori si riferisce?

AMATO - Esiste un mix di indicatori che può essere costruito — che tra l'altro include anche quelli sociali — che possono, nell'insieme, definire in modo trasparente che cosa ci si aspetta e quali sono i risultati. Voglio essere chiaro: questa invenzione di Siviglia, il close to balance mi sembra un po' l'idea del focherello, focherello. Capisco che l'abbiano pensata in Germania quando stavano percependo che sfondavano il 3 per cento. E colpisce che al focherello focherello ci sia arrivato un insieme di maggioranze di centro-destra.

SAVONA - Il compito dell'Eurogruppo potrebbe essere proprio questo: individuare quegli indicatori che sblocchino la paralisi fiscale senza perdere le regole di bilancio.

Torniamo alla costruzione europea: Presidente Amato, lo spostamento a destra dell'asse politico rischia di modificare definitivamente l'equilibrio nella costruzione dell'architettura della nuova Europa?

AMATO - Su questo io sono fiducioso che possa non accadere: c'è una relativa vicinanza in materia di assetto futuro dell'Europa, tra le grandi famiglie politiche: popolari, socialisti, liberali. Vedremo di trovare una convergenza. Più opzioni la Convenzione presenta, più è debole davanti alla Conferenza intergovernativa. Questo è ovvio, e quindi la Convenzione ha davanti un compito apparentemente impossibile, che è quello di cercare di ottenere il massimo di innovatività con il massimo di consenso interno. In genere sono due massimi che si escludono l'uno con l'altro, però le circostanze alle quali prima mi riferivo potrebbero facilitare questo apparente ossimoro.

I tempi della Convenzione restano quelli ipotizzati? Ci sarà un nuovo Trattato di Roma?

AMATO - Io penso di sì. I lavori dovrebbero concludersi nei tempi previsti. Ho già detto a tutti i miei interlocutori che questa è una aspirazione italiana, non una aspirazione di parte: perché che ci sia il secondo Trattato di Roma credo possa far piacere a tutti gli italiani. Purchè sia il Trattato di Roma, non di Milano.

Salvati: dialogo sì, ma il Governo decida

La Malfa: un vantaggio l'inflazione all'1,4%

Il Patto per l'Italia ci avvicina o ci allontana dall'Europa?

SALVATI - Se ci avvicina o ci allontana è opinabile, la cosa sicura è che ci avvicina o ci allontana di poco.

LA MALFA - Se è considerato ancora utile che la politica economica dei governi abbia una controparte col sindacato, il Patto per l'Italia è utile.

AMATO - Io, rispetto all'Italia, sono rimasto colpito da un fatto: l'unico dato dell'economia italiana che ha continuato a essere relativamente soddisfacente in questi tre anni è la capacità di produrre posti di lavoro. Un fatto che sembra contrastare l'idea che l'ostacolo allo sviluppo sia la rigidità del mercato del lavoro. Forse sono altri i fattori che incidono sulla nostra debolezza. Altrimenti da dove vengono fuori questi 350mila posti l'anno con l'economia che viaggia all'1%? Questa ossessiva concentrazione sulle rigidità del mercato del lavoro forse è servita soltanto a non badare a sufficienza agli altri problemi. Quello che i cittadini europei chiedono all'Unione è di creare un Continente che sia capace di dare vero sviluppo con un ragionevole livello di protezione sociale. Tutto questo a Lisbona c'era scritto. E io provo a segnalare che sarebbe stato più opportuno se in Italia avessimo dedicato il tempo che abbiamo dedicato all'articolo 18, al tema più generale di quale sia il grado di protezione sociale che l'Europa ritiene comunque irrinunciabile.

Ma la concertazione emerge come un metodo valido, esportabile?

SALVATI - La fase aurea della concertazione è stata sulla politica dei redditi. Quando si toccano argomenti che vanno dalle pensioni alle legislazioni del lavoro, si fa molta più fatica. Su questi temi un Governo che ha una larga maggioranza ha il dovere di avere una sua visione. Però quel che occorre è un disegno di politica del lavoro e di politiche delle tutele del lavoro che abbia l'ampiezza necessaria. Si può benissimo toccare l'articolo 18, però a quel punto bisogna mettere mano - e seriamente - non soltanto agli ammortizzatori sociali ma all'intero sistema del welfare italiano. Bisogna trovare una sorta di reddito garantito di base. Questo è il motivo per cui io, che credo di essere un uomo di sinistra moderata, avrei voluto vedere un disegno d'insieme.

LA MALFA - Salvati dice giustamente che l'età aurea del patto sociale è stata la lotta contro l'inflazione. C'è però una politica dei redditi per lo sviluppo, che diventa necessaria nel momento in cui l'Italia rinuncia a quel margine di flessibilità che è il suo tasso di cambio. Ciò che rende utile o indispensabile un patto sociale in Italia è l'euro. Ne discutevo l'altro giorno con Pezzotta (il segretario della Cisl, ndr), contrariato perché il Governo ha fissato l'inflazione programmata all'1,4 per cento. Gli ho detto: stai attento che l'1,4% è anche la possibilità di difendere l'economia italiana e i suoi posti di lavoro. Poichè l'inflazione media in Europa è il 2%, se si riesce a centrare l'1,4%, portiamo a casa un vantaggio competitivo. Il Governo dovrebbe convocare gli imprenditori e dire chiaramente: quello che abbiamo fatto sul mercato del lavoro, quello che ci prepariamo a fare sul fisco, quello che abbiamo fatto sul rientro dei capitali all'estero è sufficiente perché voi facciate vedere un po' di spiriti animali ottimistici?

SALVATI - Questo è il discorso che fanno anche, per molti aspetti, i sindacati. La quantità di flessibilità oggi esistente nel mercato del lavoro è notevole. Il problema è casomai trovare lavoratori adeguati. Sono preoccupato per il futuro: se dobbiamo seguire la strada concertativa conviene avere i sindacati uniti. Non si possono perseguire insieme due strategie in contrasto: quella di concertazione e quella di divisione sindacale.

LA MALFA - Ma il Governo avvia una strategia di concertazione, se poi al tavolo i tre si dividono...

SALVATI - Non sto dicendo che c'è una volontà specifica di rottura sindacale da parte del governo. La mia è una constatazione di merito. Si è fatta concertazione, in momenti di emergenza e con i sindacati uniti. Detto questo, quanto diceva La Malfa sull'inflazione programmata all'1,4% è ragionevole.