Lettera del Presidente della Corte Costituzionale Ruperto al Presidente dell'Associazione Francesco Furchì e al Sottosegretario Nucara, per la consegna del premio Magma Graecia Millennium a Torino

"Nel rammarico di non poter essere presente a Torino per la cerimonia della consegna del premio Magma Graecia Millennium, edizione 2001, che codesta associazione ha avuto la benevolenza di assegnarmi, desidero esprimere i miei più vivi ringraziamenti ai responsabili e agli organizzatori dell'iniziativa. Ma vorrei anche permettermi ­ senza irriverenza e come non si parlasse di me ­ di svolgere qualche rapida considerazione.

Io considero un onore l'aver portato la toga per più di cinquant'anni, prima nella magistratura ordinaria e poi nella Corte costituzionale, anche ora come suo Presidente. E sento l'orgoglio delle radici, e custodito come un dono prezioso il bagaglio dei ricordi di persone e di cose della mia terra. Ma ho l'impressione che tutto questo costituisca, per me, piuttosto un motivo di debito o di riconoscenza: per la fiducia, da un lato, che ho sempre avvertito fosse riposta, non solo nell'esercizio della funzione ma nelle capacità della persona che ne è titolare, nella sua competenza, forse anche nella cultura, ma soprattutto nella sua coscienza; e, d'altro canto, per il patrimonio di umanità e di sensibilità, da cui il richiamo interiore delle radici mi ha sempre utilmente consentito di attingere.

A un giudice si chiedono molte cose, tutte difficili. Si chiede misura e ponderazione, ma pure lo slancio dell'intuizione, il coraggio della scelta. Gli si chiede di essere partecipe, senza tuttavia diventare di parte; la capacità di capire le ragioni degli uomini e delle cose, ma anche di sentirle, riuscendo perciò a fare non semplici ragionamenti bensì vere sententiae (le pronunce, infatti, devono convincere, non dimostrare). Gli si chiede studio e dottrina, che producano scientia, ma gli si chiede anche esperienza: aver attraversato la vita, per essere capace di prudentia. Gli si chiede pazienza, non già sopportazione: di saper ascoltare fino al limite estremo, fino a dare agli altri ed alle cose, almeno nel loro libero confronto, tutto lo spazio possibile, e compatibile, secondo i bisogni e non solo secondo i diritti. Ma gli si chiede anche di contrastare gli abusi e di impedire, finché può, le sopraffazioni e le violenze.

Queste e tante altre cose gli richiede la Comunità: per essere, in fondo, profondamente uomo. E tuttavia, come uomo, ha tutta la trepidazione dell'incertezza, tutto il limite della sua forza: un attimo dopo può pensare di avere sbagliato o anche, sbagliando, pensare di essere nel giusto.

Le radici, poi, non sono un requisito di appartenenza. Indicano, piuttosto, connessioni, ramificate nel profondo, con modi diversi di vivere o di sentire; con i modi di parlare, e cioè anche percepire e tradurre la realtà, i tempi della mente, i timbri inconfondibili delle provenienze. Collegamenti con i modi di lottare o di sognare o di educare, di far festa o di soffrire e, infine, di morire; di custodire la memoria e poi di tramandarla o trapiantarla, o di far cadere l'oblio. Sono identità naturalmente collettive che si esprimono, comunioni, comunità; storie specifiche, sempre uniche, di gruppi di persone o di generazioni vissute: lungo il tempo, in quel territorio con le sue colline, le pianure, i boschi, i fiumi, le campagne, o le città, o i paesini, e così via inesauribilmente.

Le radici, dunque, sono legami, non vincoli: spazi fisici o mentali di vita o di storia comune, non già recinti chiusi. Occasioni di riconoscersi, di condividere, di distinguersi; non di chiudersi o di contarsi o, peggio ancora, perciò stesso, di contrapporsi. Sono un mezzo per irrobustire la propria identità; ma poi ­ proseguendo nella metafora ­ le piante crescono e i rami si moltiplicano e le foglie respirano e cambiano vita continuamente. Le identità si coltivano, e poi si esportano e cercano di essere feconde: finché e come si può.

Ma è ora, caro Presidente, di chiudere questo messaggio, che rivolgo a Lei e al Magna Graecia Millennium con tutta la più cordiale partecipazione. In esso ho forse tracciato uno schizzo ideale, e alquanto romantico: intendevo, in realtà, soltanto dire che mi sarebbe piaciuto ricevere un premio per avere, anche in minima parte, vissuto o pensato così".

Cesare Ruperto

Roma 3 dicembre 2001