45° Congresso dell'Edera/La relazione introduttiva del segretario nazionale rivendica l'autonomia del partito (seconda Parte)

SVILUPPO, ECONOMIA, POLITICA

Se ci siamo soffermati così a lungo sui temi internazionali non è solo per l'importanza che essi rivestono in questa particolare congiuntura. Dove collocarsi, specie in una fase così difficile piena di incognite, è un momento identitario. Dice più questa collocazione che l'intero programma elettorale dell'Unione. Per i repubblicani è una scelta chiara. Risponde ai valori più profondi della nostra lunga storia, nel corso della quale vi sono state intuizioni profonde, che ancor oggi sono strumenti potenti dell'analisi

Vincenzo Cuoco comprese ciò che altri stentavano a capire. La fine della prima guerra mondiale aveva determinato profonde trasformazioni sociologiche negli assetti economici e sociali dei singoli paesi. Il grande sviluppo tecnologico che la guerra aveva determinato non era più compatibile con le forme di una politica che rimaneva ancorata agli schemi del passato. Ci sarebbe voluta una grande svolta, che invece non venne. Ed il risultato fu la grande crisi del 1929. Lezione amara, che solo a distanza di anni fu solo in parte compresa, dando luogo alle grandi istituzioni economiche che hanno governato l'economia mondiale fin quasi ai nostri giorni. Per poi deperire sulla spinta di quel grande terremoto che è stato l'avvento della globalizzazione.

Con Vincenzo Cuoco possiamo interpretare quella fase, con il suo termine di "rivoluzione passiva". Ossimoro fortunato. Ma che cos'era la "rivoluzione passiva"? Lo strumento attraverso il quale le élites politiche ottenevano il consenso delle classi subalterne, impostando una linea di azione rivoluzionaria, di tipo giacobino. Oppure con un processo di rivoluzione ­ restaurazione, che consentiva loro l'esercizio dell'egemonia senza alcuna rottura istituzionale ma adeguando le forme della politica al divenire spontaneo della società percorsa da una tensione intrinseca di cambiamento. Due modelli alternativi nella storia più complessiva europea. In Francia l'egemonia si esercita con la rottura del processo rivoluzionario. In Inghilterra è la continuità delle classi dirigenti a guidare il paese per un periodo storico talmente lungo da perdersi nelle notti del lontano Medio Evo. In entrambi i casi, tuttavia, l'esercizio della politica interferisce con il moto spontaneo della società: per guidarne l'evoluzione, come in Inghilterra, o mutarne bruscamente il corso come in Francia o in Russia. Con i risultati che tutti conosciamo.

La storia italiana è fatta di tante "rivoluzioni senza rivoluzioni". A partire dal Risorgimento ­ ecco l'importanza di un partito che conserva nel suo DNA quei lontani ricordi ­ epoca in cui i moderati riuscirono a esercitare la loro egemonia sul Partito d'Azione. O con l'avvento del fascismo, altra "rivoluzione senza rivoluzione", in cui le forze democratiche furono sconfitte da un movimento, inizialmente marginale, ma capace di cogliere ciò che bolliva nelle viscere del Paese ed in grado di porsi alla testa di queste esigenze. Altra "rivoluzione passiva": segnata da una lunghissima presenza al governo del Paese e dalla nascita di istituzioni ­ dalla Banca d'Italia alle partecipazioni statali ­ cui si deve, in larga misura, il grande sviluppo italiano dell'immediato dopoguerra. Fino all'inevitabile crisi.

Ed un'altra "rivoluzione passiva" fu quella tentata, ma non riuscita, dalle forze politiche italiane, agli inizi degli anni '80. Quando allora si parlava di governare il cambiamento ­ se non ricordiamo male uno degli ispiratori di questa proposta fu proprio Giuliano Amato ­ mentre il PCI di Berlinguer inseguiva il miraggio di "una terza via". Una strada intermedia tra un paese che aveva le caratteristiche strutturali del socialismo reale e non voleva adeguarsi ai venti di quel grande cambiamento, imposto dalle mutate condizioni internazionali. Le stesse che avrebbero determinato, di lì a poco, l'implosione dell' "impero del male", e la caduta del muro di Berlino.

Non si consideri esagerata quest'analisi. Nella sintesi che nell'ultimo DPEF dà conto del processo di privatizzazione avvenuto in Italia è scritto: "fino al 1991, lo Stato controllava direttamente o indirettamente il settore bancario/assicurativo e importanti comparti dell'industria e dei servizi. Questo avveniva tramite il Ministero delle Partecipazioni statali al quale facevano capo gli Enti di gestione (IRI, ENI ed EFIM) ed altri enti pubblici economici. Per avere un'idea dell'entità di tale presenza, basti ricordare che, all'inizio degli anni '90, lo Stato deteneva in Italia circa il 45 per cento dell'intero settore industriale e dei servizi e oltre l'80 per cento del settore bancario. A questo si accompagnava una situazione finanziaria del Paese caratterizzata da un debito pubblico di dimensioni eccezionali, sia in valore assoluto che in rapporto al PIL, una generale assenza di liquidità nei mercati finanziari e un sottodimensionamento della Borsa valori". A vigilare su tutto ­ aggiungiamo noi ­ era la Banca d'Italia, cui spettava il governo della moneta in perenne conflitto con una spesa pubblica che cresceva costantemente, condizionandone l'efficacia. La crisi del 1992 fu l'approdo definitivo del crollo di questo modello. Segnò anche il fallimento dell'ultima "rivoluzione passiva" italiana.

Ma la "rivoluzione passiva" non ha deposto le armi. Il suo incedere prosegue con una forza straordinaria, che nasce dalle azioni di milioni di uomini ai quali le nuove tecnologie offrono, forse per la prima volta nella storia del genere umano, una possibilità di riscatto.

I dati della realtà internazionale mostrano quanto profondi siano stati questi cambiamenti negli ultimi anni. Dagli inizi degli anni '90 le carte geografiche che tracciano i confini economici dei singoli paesi o dei singoli continenti sono state ridisegnate. In un periodo di tempo così breve, rispetto ad una storia millenaria, zone sconosciute hanno fatto passi da gigante. Non solo Cina, India, o Sud est asiatico, il cui peso specifico è passato in quindici anni dal 17,6 al 31,2 del PIL mondiale. Nel 2007, l'Azerbajan crescerà del 18 per cento. Il Sudan del 12. L'Angola dell'11. Mauritania e Liberia oltre il 10. Il Kazakistan, un paese al confine tra Russia ed Iran, prevede di crescere del 19 per cento in meno di tre anni e di essere tra i primi 50 paesi del mondo come reddito pro-capite, nei prossimi dieci. Ci sarà anche l'Italia?

Desta qualche sorpresa la gioiosità con cui Joaquin Almunia ha illustrato le ultime previsioni di crescita per l'Europa. L'obiettivo, sottoposto tuttavia a tante incognite ed interrogativi, è del 2,7 per cento. Contro il 2,9 che si presume aver conseguito nel 2006. Per l'Italia si parla del 2 per cento. Decisamente superiore all'1,3 per cento previsto dall'"Economist" che la collocava al terzultimo posto ­ prima della sola Islanda e dello Zimbawe ­ della classifica mondiale. Una delle economie più lente tra le dieci che si sviluppano ai livelli più bassi. Ma il confronto, sempre che Almunia abbia ragione, fa ugualmente impressione. Ed esso va fatto tenendo conto che in questi ultimi anni l'economia mondiale cresce ad un ritmo del 5 per cento. E che le distanze tra quelle che una volta erano le zone forti del mondo rispetto non solo agli emergenti, ma agli Stati Uniti, crescono invece di diminuire.

Il mondo, nel suo complesso ­ dalla Russia di Putin all'America di Bush; dall'Asia all'America Latina ­ segue una strada diversa. Ed i risultati si vedono, non solo nel ritmo di crescita economico conseguito, ma in quello prospettico. Le previsioni a più lungo termine ci dicono che il blocco occidentale ­ USA ed Europa ­ se non si interverrà per incidere sui meccanismi di sviluppo e dell'accumulazione perderà il suo primato storico a vantaggio degli emergenti. Nel 2050, secondo le stime di Goldman Sachs, Cina ed India produrranno oltre il 30 per cento del PIL mondiale. Saranno divenuti cioè il "manufacturing hub", ("il cuore del manifatturato") di cui parla l'"Economist", mentre quelle che una volta erano le principali potenze economiche del mondo scenderanno di rango, potendo disporre solo del 25 per cento.

Sarà anche giusto ed inevitabile, ma è altrettanto pericoloso. Il mondo dell'interdipendenza è ancora difficile da leggere e da decifrare. Solo pochi anni fa l'islam sembrava una religione d'altri tempi, che aveva esaurito nel ‘400 le sue capacità di espansione. Oggi manifesta potenzialità impensabili che, fin da ora, si misurano ad armi pari con quelle delle grandi potenze dell'Occidente. Che sarà il mondo, tra qualche anno, quando i rapporti di forza si saranno modificati a favore di potenze e popoli di cui non è ancora noto il relativo potenziale? Fin da ora l'economia più forte del Pianeta ­ gli Stati Uniti d'America ­ deve molto alla benevolenza finanziaria di paesi che vivono al di fuori del suo perimetro di influenza. Se non vi fosse la Cina che investe a Wall Street o i paesi dell'OPEC, il dollaro sarebbe in caduta libera: abbattuto dal doppio deficit di uno squilibrio valutario e da quello pubblico, frutto anche delle spese connesse all'impegno militare, nel tentativo di circoscrivere il perimetro d'azione del fondamentalismo islamico.

Che i mutamenti dei rapporti di forza tra i diversi continenti siano intervenuti non è dimostrato solo dal crescente contributo di questi ultimi alla crescita del PIL mondiale. Oltre il 30 per cento del risparmio mondiale si concentra presso i nuovi protagonisti della vita economica internazionale. Da paesi debitori, questi ultimi sono divenuti, negli ultimi 5 anni paesi creditori. Per spiazzare l'occidente non hanno bisogno di attentati ed autobombe, basta solo dirottare il flusso dei finanziamenti. Sostituire una piazza finanziaria con un'altra. Finora l'urto è stato retto alimentando l'efficienza dei mercati. Creando sul piano dei servizi ­ specie finanziari ­ condizioni di eccellenza che è difficile replicare. Ma tutto ciò richiede un continuo sforzo di innovazione. Lo spostamento in avanti della linea di confine. Un lavoro di intelligence continuo e permanente.

Bastano questi semplici dati per dimostrare l'insostituibilità dell'alleanza atlantica. Stati Uniti ed Europa non sono solo legati da una storia comune. E' il futuro che rende ancora più stringente questo rapporto. Se si dovesse rompere, forze ostili già potenti sul terreno economico e demografico dilagherebbero. Se la bilancia militare dovesse pendere a favore di queste ultime sarebbe un'ulteriore colpo e lo spettro della caduta di fronte all'incalzare degli eventi. Non è necessario evocare per questo il conflitto di civiltà. Basta la consapevolezza che la storia non cammina, dopo secoli e secoli, con l'Occidente. Che esso non è più al centro delle vicende umane. È che gran parte della sua ulteriore sopravvivenza è legata alla velocità con cui la democrazia e la libertà, che sono presupposto di una pacifica convivenza, si affermano in mondi lontani, ancora avvolti nelle brume del totalitarismo e del fanatismo.

Soprattutto l'Europa deve fare la sua parte. Rassicurare gli Stati Uniti nella loro azione di contrasto contro gli "Stati canaglia". Consigliarli da alleato leale, supportandone la missione in una logica multilaterale che non può ridursi a semplice furbizia per abbattere i costi che la funzione di leadership inevitabilmente comporta. Oneri ed onori: questa è una logica sottesa ad ogni azione non di egemonia ma di semplice presenza in un'arena internazionale agitata dai venti del cambiamento. Ma soprattutto deve uscire dallo stato di crisi in cui versa. Mettere da parte visioni nazionalistiche che somigliano sempre più a beghe di condominio sulla tolda del Titanic, in procinto di affondare. Occorre soprattutto mettere mano al deficit strutturale di un'architettura istituzionale e di una governance che le impedisce ogni ruolo politico, come soggetto unitario. Finora le grandi rivalità storiche hanno impedito di parlare un'unica lingua. La relativa debolezza degli Stati fondatori, seppure motivata da cause diverse, ne ha comportato un ripiegamento nazionalista: segnato dal prevalere dei problemi interni sulle grandi strategie planetarie. Per fortuna qualcosa sta cambiando. In controluce si ridisegnano i rapporti di forza che sono il fondamento della leadership. Angela Merkel può rappresentare una svolta. Il processo di unificazione del Paese sembra essere giunto a buon punto. La riconversione produttiva avviata con successo. La grande locomotiva continentale può ripartire. Ma non va lasciata sola.

L'Italia deve contribuire al rilancio europeo innanzitutto mettendo ordine nella sua economia. Arrestando il declino che la corrode. Abbattendo il suo smisurato debito pubblico, dando un rinnovato smalto alla sua economia. Lo deve fare per evitare il rischio di un'emarginazione, il cui presidio effettivo non è il chiacchiericcio diplomatico, ma la forza economica e sociale che è capace di mettere in campo.

Il problema dello sviluppo economico deve tornare ad essere uno dei temi centrali del dibattito politico. Come lo fu negli anni del dopoguerra. O come fu la nascita dell'euro, alla fine degli anni '90. Questa è la missione più importante, per riprendere le parole di Carlo Azeglio Ciampi, che il Paese deve fare propria. Abbiamo bisogno di sviluppo non solo per far fronte alle piaghe storiche del Paese: a partire dal Mezzogiorno, ma per rafforzare l'Europa e quindi quell'asse atlantico che è garanzia di pace e di democrazia per gran parte dei popoli della Terra. Non è quindi una visione economicistica quella che ci ispira, ma la consapevolezza dei rischi e delle potenzialità che sono impliciti in questa incerta fase di passaggio. Rischi che vanno affrontati. Potenzialità che vanno inseguite.

La trasformazione della ripresa, in crescita duratura, non è cosa da poco, sempre che ci sia. Richiede uno sforzo collettivo, una condivisione dei fini, una coesione nazionale che, oggi, è lungi dall'essere conseguita. Abbiamo invece una frammentazione del quadro politico che esprime le fratture profonde della società italiana. La commistione di valori diversi ed antinomici che nessuno cerca di portare a sintesi, battendosi con energia contro i cattivi maestri, contro coloro, cioè, che per opportunismo o semplice pigrizia intellettuale, cercano al contrario di perpetuare nella speranza di un posto sicuro in Parlamento. E' necessaria una grande battaglia culturale che illumini il popolo. Che faccia comprendere a tutti non solo l'importanza delle poste in gioco. Ma anche le priorità e le condizioni necessarie per realizzare traguardi di carattere universale.

Unicità di indirizzi quindi nel disegnare le priorità vere del paese. Quello che manca a questo Governo: sempre incerto ed ondivago tra i DICO e la conservazione di un welfare da tempo insostenibile. Non tanto per le prestazioni, tutt'altro che soddisfacenti. Quanto per gli sprechi, le bizzarrie degli interventi, le mance distribuite senza alcun disegno organico e finalità. Il superamento di questo stato confusionale è condizione indispensabile per far ritrovare all'Italia una prospettiva di progresso. Credibilità ed "accountability", come dicono gli inglesi, vale a dire coerenza e trasparenza, sono i pre-requisiti di qualsivoglia politica economica. Senza questi ingredienti tutto si trasforma in gioco, artificio dialettico, finzione. Come faremo a convincere i lavoratori ad impegnarsi di più, gli imprenditori ad investire nelle loro aziende, i giovani ad applicarsi maggiormente nello studio, se il Governo si accapiglia su questioni simboliche, invece di confrontarsi, anche duramente, sulle questioni rilevanti? Dove sta la credibilità di un esempio che dovrebbe venire dall'alto per poi diffondersi nei rami più bassi della società civile? Che fine fa la moral suasion, che è l'unica vera arma a disposizione delle Istituzioni, per tracciare la via da seguire nell'interesse del Paese?

Non abbiamo altri strumenti per orientare l'economia. Quelli di una volta ­ la politica del cambio, la leva finanziaria, la politica monetaria ­ sono stati travolti dalle trasformazioni intervenute negli equilibri mondiali. Che a loro volta si sono tradotti in vincoli oggettivi ed in "guidelines" dalle quali è impossibile derogare. Non c'è dissenso su quest'analisi. La stessa sinistra ne enfatizza le caratteristiche, quando si appella all'Europa ed alla sua missione salvifica. L'incoerenza si manifesta altrove. Nel momento in cui dall'analisi non si traggono, con coerenza, le conseguenze operative. Nel momento in cui quei vincoli vengono evocati ma non declinati in comportamenti che siano coerenti con i presupposti su cui si fondano. Sta in questa contraddizione evidente il fallimento dell'azione di governo sviluppata da maggioranze non omogenee ed in aperto conflitto tra di loro.

L'economia, si dice, non la fa il Governo. Ma le imprese, i lavoratori, le banche e le istituzioni, aggiungiamo noi. Ciascuno nel proprio ambito. Ciascuno secondo le proprie responsabilità. L'idea è giusta, ma incompleta. Se il ruolo del Governo fosse irrilevante, la stessa democrazia si ridurrebbe ad un semplice optional di cui si potrebbe fare a meno. Basterebbe affidarsi alla mano invisibile del mercato ed attendere sotto un albero la maturazione dei frutti. Purtroppo o per fortuna non è così. Alla politica, in un regime di democrazia, si richiede di rappresentare la sintesi. Di guardare oltre il contingente e guidare il popolo verso obiettivi che trascendono l'interesse del singolo. Di esercitare, in altre parole, quella funzione di leadership senza la quale non c'è domani, non c'è futuro e tutto si riduce alla lotta selvaggia, nella giungla della sopravvivenza.

Moral suasion: (convincimento morale) questa è la parola chiave che legittima la funzione di governo e racchiude l'essenza della politica economica. Se c'è questo indirizzo il Paese marcia. Se manca, com'è avvenuto finora, declina. Lo si è visto in Italia, ma non solo. In Francia si assiste ad un fenomeno analogo. In Germania si manifesta un primo barlume, dopo gli anni duri dell'unificazione e degli sforzi compiuti per dargli sostanza economica e sociale. Per definizione, la moral suasion non è un elenco di cose da fare. Ma lo sviluppo di un programma coerente in cui le singole tessere del mosaico si incastrano per rendere visibile il disegno che si vuole ottenere. Nostro obiettivo prioritario rimane la crescita. Abbiamo bisogno di maggiore sviluppo per avere maggiore benessere. E di maggiore benessere per garantire maggiore equità. Non vogliamo lotte tra poveri che si spartiscono una torta sempre più piccola. Ma accrescere il dividendo sociale per poi ripartirlo, coniugando meriti e bisogni.

Lo ha detto bene, Mario Draghi, nella sua prima relazione annuale come neo-governatore della Banca d'Italia. "Queste mie considerazioni finali si sono aperte con le parole ‘tornare alla crescita'. Oggi è questa la priorità assoluta della politica economica italiana: proprio come l'entrata nell'Unione monetaria lo fu dieci anni fa. Preservando la stabilità a duro prezzo acquisita, si deve ritrovare la via dello sviluppo. Le azioni da intraprendere, incluse le misure per il risanamento della finanza pubblica, divenuto imperativo, devono essere vagliate in primo luogo sotto questo profilo. Il raggiungimento di questo obiettivo richiede consenso sul disegno del futuro, concordia sull'azione nel presente. Ci sia di incoraggiamento la consapevolezza che il Paese nella sua storia ha saputo rispondere a sfide ben più drammatiche." Come declinare quest'obiettivo?

La cosa più importante da fare è liberare la società italiana da una presenza eccessiva: quella dello Stato e degli apparati pubblici che ne caratterizzano l'esistenza. Una presenza così diffusa ­ lo abbiamo visto in precedenza ­ era giustificata dal contesto keynesiano in cui l'economia italiana operava, al pari di quella degli altri paesi. Ma questo periodo è finito. Venuto meno l'impianto generale, non può rimanere immutata la sua proiezione operativa. Non si tratta nemmeno di punire "i fannulloni", come suggerisce Pietro Ichino. Ma di un lavoro più ampio che porti ad una rivisitazione degli assetti istituzionali e delle regole che li sorreggono. Semplificazione legislativa ed amministrativa, uso rigoroso delle risorse, analisi costi ­ benefici, definizione puntuale dei programmi e delle missioni, nuovi assetti istituzionali: sono questi i cardini di una politica da sviluppare con pazienza, ma anche con grande determinazione. A partire dalle situazioni più critiche, come la spesa degli enti locali oggi fuori controllo ed in continua espansione.

Bisogna riprendere il tema del costo di queste strutture. Vedere se i servizi pubblici resi non presentino costi esorbitanti. Se le province, tanto per ricordare un'antica battaglia repubblicana, debbano essere mantenute. Se le regioni non debbano presentare rendiconti certi delle loro attività. Se i comuni non abbiano dilatato oltre misura funzioni che non spettano loro alla continua ricerca di un effimero ­ specie sul piano culturale ­ che è solo foriero di facili consensi. Non siamo contro il federalismo, ma per un federalismo ordinato ed intelligente che non sfugga alla logica del dare e dell'avere. Conti che devono essere presentati alla cittadinanza alla quale chiedere se intende vivere in uno stato pseudo - socialista, sostenendone il costo in termini di maggiori imposte, oppure essere libera nelle scelte da compiere avendo a disposizione un maggior reddito pro-capite. Il federalismo fiscale può essere una risposta. Ma non vi può essere al tempo stesso maggior prelievo fiscale e trasferimenti a carico del bilancio dello Stato. L'attuale ibrido sistema ha solo l'obiettivo di deresponsabilizzare gli amministratori pubblici, che hanno il vantaggio della spesa, ma non l'onere di trovare le necessarie coperture finanziarie.

E' il dramma di sempre della democrazia italiana. La storia infinita di una riforma amministrativa sempre annunciata - come dimenticare i moniti di Ugo La Malfa? - e mai realizzata. Falliremo anche questa volta se non partiremo da un contenimento della pressione fiscale. Essa deve essere fissata ex ante e diminuire progressivamente. Ogni anno dobbiamo porre un limite invalicabile all'entità di risorse da destinare alla spesa pubblica per poi costringere ministri ed amministratori a rispettare quel vincolo. Come? Riducendo le spese, razionalizzando le strutture, contenendo i costi, dismettendo le attività caratterizzate dal maggior rapporto costi - benefici. È così che si fa nelle imprese private. È questo il duro lavoro dei managers a cui sono riconosciuti stipendi superiori alle medie. Definire in anticipo l'entità delle risorse a propria disposizione e fare ciò che fanno le banche nei confronti dei propri clienti. Esaurito il fido, gli amministratori devono tagliare i rami secchi. Costringere i propri dipendenti a lavorare di più. Largheggiare meno in consulenze e spese di rappresentanza. Solo allora le aziende si ristrutturano, la produttività aumenta. Si crea maggiore ricchezza nell'interesse della singola azienda, ma anche dell'intero paese.

Ma non si tratta solo di utilizzare al meglio risorse che sono di tutti e non appannaggio esclusivo di amministratori e ceto politico. Solo un'azione decisa in questo senso rende, infatti, credibile l'avvio di un più generale processo di liberalizzazione: visto come recupero di efficienza complessiva e non come elemento di penalizzazione nei confronti di un blocco sociale ritenuto, a torto o a ragione, attestato su una linea di opposizione nei confronti dell'attuale governo.

Se liberalizzare significa dare più forza al mercato, contro le posizioni di rendita, la prima da colpire è proprio quella di una pubblica amministrazione da sempre fuori dai parametri europei. Una pubblica amministrazione che consuma più di un quarto del PIL, senza tener conto dei contributi previdenziali. Sommando i quali la pressione fiscale raggiunge il 42 per cento del PIL. Queste cifre indicano l'urgenza di una riforma. Che può realizzarsi solo attraverso una rivisitazione dei compiti e dei ruoli che l'Amministrazione è chiamata a svolgere. Per realizzare un simile obiettivo non basta la proposta, pure generosa, di una nuova Authority, in funzione di controllo; ma un lavoro di più lunga lena che sappia, di anno in anno, disboscare una giungla divenuta indistricabile. Dovranno essere le nuove regole che presiedono alla sessione di bilancio, contenute in un apposito disegno di legge elaborato dal nostro partito, a guidarne il percorso.

L'avvio di questa riforma e l'ulteriore implementazione del processo di liberalizzazione costituiscono le due facce di una stessa medaglia. La seconda sta in piedi solo se si opera anche sul primo terreno. Con tempi diversi, naturalmente a causa della maggiore complessità dei problemi. Ma con la stessa determinazione. Solo così si dà corpo all'azione di governo, facendo cadere la facile accusa che basti imporre ai parrucchieri di lavorare il lunedì per accrescere il potenziale produttivo del Paese.

Nel nuovo assetto policentrico della realtà internazionale l'Italia conserva un ruolo chiave. E' la piattaforma logistica naturale del commercio nord ­ sud. Un ponte ideale tra il manufacturing hub di cui abbiamo già parlato ed i grandi mercati di sbocco dell'Europa continentale. Sono le nuove "vie della seta", come nella Venezia del ‘400, che segnò l'egemonia economica della Serenissima rispetto all'ambiente circostante. Una prospettiva che farebbe del Mezzogiorno il baricentro di un ritrovato sviluppo ­ Gioa Tauro insegna ­ avviando a soluzione i problemi non risolti del nostro Risorgimento. Ebbene per realizzare concretamente questo obiettivo occorrono i grandi investimenti ­ a partire dal porto di Taranto ­ per interconnettere sia la rete ferroviaria che quella autostradale. Per poi sviluppare il cabotaggio e quindi collegare con le necessarie infrastrutture i diversi approdi di cui è ricca la nostra penisola. Ma per fare questo ci vuole intelligence, capacità di programmazione e di comunicazione nei confronti delle popolazioni locali. Che devono diventare partecipi di questo progetto.

Un'Amministrazione pensante: questo è quello che manca in Italia e che dobbiamo costruire. Per farlo è necessario non disperdere le risorse esistenti, ma concentrarle in quei grandi progetti da cui dipende, in prospettiva, il futuro del Paese. Non si tratta solo di "hardware". L'Agenda di Lisbona ha indicato un percorso, che rischia ­ anzi lo è quasi ­ di fallire, se non si interverrà con tempestività. Non si tratta solo di trovare le risorse necessarie, reperibili solo riorganizzando lo spettro delle priorità pubbliche, ma ritrovare un core business che la semplice routine burocratica ha, da tempo, soffocato. Ancora una volta aiuta l'esempio delle grandi realtà internazionali. Le grandi compagnie internazionali hanno progressivamente dismesso i rami collaterali della propria attività. I grandi conglomerati finanziari sono divenuti un'eccezione. La stessa FIAT è tornata a crescere, quando ha abbandonato la eterogeneità per concentrarsi sull'auto. Il suo vero core business.

L'Agenda di Lisbona ha indicato, con precisione, gli obiettivi da conseguire: università, formazione, innovazione tecnologica. In questi campi l'Italia spende quanto spendono ­ e forse di più ­ gli altri Paesi. Ma la ricaduta è del tutto insoddisfacente. Si prenda solo la ricerca. Quella pubblica è più o meno in linea con quella europea. Il deficit sta nei privati. Ma l'inefficienza della spesa è tale da non produrre risultato alcuno. Come è dimostrato dai dati della produttività, che in Italia regredisce. Mentre aumenta in Francia e in Germania. I campi di intervento di un'amministrazione pubblica efficiente sono stati quindi individuati. Ciò che occorre è riorganizzare gli apparati, favorendo in questo modo un più generale processo di riconversione produttiva.

Due sono le direzioni in cui operare. Smantellare vecchie strutture ormai superate dall'incedere dei tempi; creare percorsi che garantiscano una diversa dislocazione delle forze in campo. Esiste poi una terza condizione. Il processo deve fare leva soprattutto sulle regole di mercato. E non per una concessione all'ideologia liberista. Ma perché l'intervento pubblico non sarebbe in grado di garantire gli stessi risultati. Occorrerebbe infatti un apparato legislativo ed amministrativo talmente complesso da risultare ingestibile. Il mercato può dare con maggior velocità ciò che è precluso alla mano pubblica. Il problema è seguirne le indicazioni di base e la sua regola aurea. La retribuzione dei singoli fattori della produzione, a partire dal lavoro, deve convergere verso il grado di produttività relativo.

Non sarà semplice imporre una regola, che trova nella sua semplicità un punto di forza irresistibile. Residui ideologici del passato cozzano contro un'applicazione che, comunque, può essere graduale. Fa da velo, soprattutto, un malinteso senso del solidarismo, che troppo spesso sconfina nell'egualitarismo e quindi nell'appiattimento retributivo. La logica che, ancora oggi, domina gran parte delle relazioni industriali, che producono uno strano paradosso. Oggi le stock options dei grandi manager, pubblici o privati che siano, raggiungono in media, secondo i calcoli dell'Economist, oltre 100 volte le retribuzioni medie. Non scandalizzano i 5 milioni di euro riconosciuti, come buona uscita, a Giancarlo Cimoli. Gli altri guadagnano molto di più. Rosario Bifulco di Lottomatica ha percepito nel 2006 un "grant" di 37,35 milioni; Corrado Passera, di Banca Intesa, di 25,84; Saverio Vinci di Mediobanca di 17,3. Somme che si aggiungono a stipendi medi che superano i 2 milioni annui.

Cifre ragguardevoli, ma anche differenziate. Nella parte bassa della piramide sociale vive, invece, il principio dell'eguaglianza. Buste paga predeterminate, a prescindere dal rendimento individuale e dalla relativa produttività. Sono cose del passato. Quando la classe operaia voleva andare in paradiso e l'operaio - massa era il fulcro di un sistema economico, in cui l'aumento di produttività era legato ai ritmi della catena di montaggio. E non al rendimento individuale di un sistema produttivo che, nel frattempo, si è rimpiccolito sostituendo alla forza umana, intesa come semplice dispendio d'energia, l'intelligenza del singolo lavoratore. La sua capacità di competere all'interno della fabbrica e sul mercato. Non si comprende perché una parte di questa maggiore produttività, come avviene per il general manager, non debba ritornare nella sua busta paga, sotto forma di maggior salario e di ulteriore compenso per le attività prestate.

O meglio, si capisce. Sono le forme arcaiche della contrattazione collettiva che impediscono questo risultato. Una parte del sindacato, la CGIL in particolare, deve la sua forza, seppure declinante, alla forme specifiche della sua rappresentanza. Il suo potere è nelle mani di una burocrazia sempre meno rappresentativa dei suoi mandanti originari. Che, nel frattempo, hanno cambiato pelle oltre che modo di lavorare. Resta tuttavia quella che era una vecchia coscienza di classe: mito da non sfatare, misurandosi con il modo nuovo di lavorare, perché un simile aggiornamento farebbe venir meno il presupposto stesso che legittima la rappresentanza sindacale, nelle forme che ci sono state tramandate da una storia che non ha saputo rinnovarsi.

Per il Welfare valgono le stesse considerazioni. Le sue forme sono il risultato di una sedimentazione secolare. Hanno dato molto in termini di equità e di sviluppo. Ma oggi sono travolte da un assetto economico non più corrispondente. Occorre pertanto innovare profondamente, non per ridurre le prestazioni ma per garantirle in quel futuro così diverso che si dischiude di fronte ai nostri occhi. Naturalmente non tutto sarà come prima. Dovranno, in modo particolare, cambiare i capitoli che ne caratterizzano la struttura complessiva. La riforma del sistema previdenziale non è solo motivata dall'esigenza di un maggior rigore nel calcolo attuariale, per tener conto dei nuovi parametri dell'equazione speranza di vita ­ tempo di lavoro, ma deve mirare a liberare risorse da destinare al mercato del lavoro. Si tratta di qualcosa di più di uno scambio: meno spesa pensionistica più ammortizzatori sociali. Il problema è aprire una finestra sul futuro, per consentire a milioni di lavoratori di continuare a produrre nel corso di una vita, fortunatamente, divenuta più lunga.

Che fare, quindi? Non è compito di un congresso di partito indicare l'elenco della spesa delle cose da fare. Una forza politica deve prospettare un nucleo culturale, un insieme di valori cui ispirarsi, una prospettiva di carattere generale da cui desumere le successive azioni di governo. Il nucleo fondante della nostra prospettiva è l'esigenza prioritaria di riprendere il sentiero della crescita. Non solo per motivi di carattere economico, ma per consentire all'Italia di non perdere le posizioni conquistate in 50 anni di storia, di sacrifici individuali e collettivi, di impegno prolungato. La storia dei nostri padri, un lascito che non possiamo disperdere né dissipare. Crescita significa maggiore competitività, presenza sui mercati internazionali, una simmetria tra "diritti inviolabili" e "doveri inderogabili", come prescrive l'articolo 2 della nostra Costituzione.

E' un appello che rivolgiamo a tutti: ai lavoratori che devono impegnarsi maggiormente, agli imprenditori che devono investire e produrre, ai rappresentanti delle istituzioni che devono trattare con rispetto e dedizione la cosa pubblica. A ciascuno il giusto compenso: senza moralismi, senza le facili denunce, ma anche con un rinnovato rigore nel relazionarsi con il resto della società civile. A tutti chiediamo di contribuire all'aumento della produttività, che è il grande volano della crescita economica. Aumento della produttività specifica, nei luoghi di lavoro, cui deve essere commisurato un giusto compenso. Aumento della produttività totale dei fattori, vale a dire quell'impegno di carattere generale rivolto a migliorare e modernizzare quelle strutture pubbliche e private dalla cui interdipendenza derivano le economie di scala che accelerano il processo produttivo.

E' un opera complessa. Richiede una partecipazione corale ed uno sforzo congiunto. Ma è questo uno dei compiti fondamentali del partito politico, inteso, come deve, nel suo farsi azione politica. Un partito che non si limiti solo a proclamare verità indiscutibili. Ma che sappia poi declinare quest'impegno nel susseguirsi dell'azione quotidiana. Abbiamo già indicato alcune priorità. Riguardano il contenimento della spesa corrente, il ridimensionamento degli apparati pubblici, la riduzione della pressione fiscale. Scelta indispensabile per trovare le risorse necessarie con cui colmare quel gap infrastrutturale che separa l'Italia dal resto dell'Europa e l'Europa dagli Stati Uniti.

SVILUPPO SOSTENIBILE

La sfida ambientale e quella per restare nel novero dei paesi avanzati sono due facce della stessa medaglia: potranno essere affrontate con successo solo se riusciremo a dotarci in tempo delle infrastrutture adatte a sostenere la rivoluzione del sistema economico che ci attende.

Si avvicina sempre più il momento in cui l'economia del petrolio a basso costo potrebbe essere spazzata via dal precipitare dei cambiamenti climatici o dalla lievitazione dei prezzi; se in quel momento ci faremo trovare ancora con l'attuale assetto infrastrutturale petrolio ­ dipendente, per l'Italia non ci sarà scampo: la bolletta energetica stroncherà qualsiasi possibilità di partecipare alla nuova competizione dell'era post carbonica.

Quindi, a differenza dei demagoghi del non fare, che vedono le infrastrutture in contrapposizione con la tutela dell'ambiente, il PRI ritiene che infrastrutture e ambiente sono le due facce della stessa medaglia dello sviluppo sostenibile nella nuova economia. Naturalmente si dovranno scegliere le infrastrutture del futuro e non quelle del passato, e ciò potrà essere fatto solo se ci si muove con una visione strategica, governata da un progetto "nazionale" per correggere gli andamenti spontanei, ma di brevissimo periodo, del mercato, condizionato dai poteri costituiti.

La mancanza di una programmazione strategica di riferimento e la incertezza del quadro finanziario di supporto sono stati i principali nodi che hanno reso frammentaria l'azione del passato governo. L'errore fondamentale del Governo Berlusconi in materia di infrastrutture ­ che pure ne aveva intuito la centralità strategica ­ è stato proprio quello di procedere senza una visione strategica, confondendo lo "strumento" di attuazione, (la legge obiettivo) che pure era necessario, con la strategia e la programmazione. Senza una strategia è passata la legge del più forte, che ha capovolto le vere priorità del Paese: le lobby autostradali hanno fatto la parte del leone mentre le ferrovie, a causa della disastrata organizzazione delle strutture tecniche hanno combinato ben poco, e non parliamo delle Autorità portuali, che con una medioevale organizzazione dovrebbero realizzare le "autostrade del mare". Sopraffatti dalle immancabili lobby, si è finito con il dare enfasi solo ad alcune opere, dimenticando l'esigenza di un coordinamento territoriale più ampio, senza il quale la stessa opera di ingegneria si trasforma in una cattedrale del deserto.

La carenza di risorse finanziarie e la esigenza di mettere rapidamente a reddito il sistema valorizzando ciò che è stato avviato, impongono una svolta metodologica, con una strategia ancora più rigorosamente mirata ad ottimizzare il rapporto benefici/costi (compresi quelli ambientali) nel contesto della nuova economia.

Il PRI ritiene che ciò debba essere perseguito attraverso una "programmazione strategica delle infrastrutture del Paese per lo sviluppo sostenibile", coerente con gli obiettivi nazionali ed internazionali (Kyoto, strategia di Lisbona, ecc.) che preveda azioni coordinate su tutti gli strumenti (finanziari, normativi ed operativi) e sia supportata da un "patto politico nazionale" che ne sostenga l'azione e il reperimento delle risorse finanziarie, fra le quali quelle ingenti della programmazione 2007 ­ 2013 (120 miliardi) destinati alle aree in ritardo di sviluppo, che già, purtroppo, sono oggetto di accaparramento e finirebbero per essere disperse nei soliti rivoli degli investimenti a pioggia, come è già successo per i fondi del periodo 2000 - 2007.

Il PRI ritiene che tutte le indicazioni in materia di infrastrutture inserite nei vari documenti di strategia e/o di programmazione generale e settoriale esistenti debbano essere ricondotti e armonizzati all'interno della "programmazione strategica delle infrastrutture del Paese", (PSI) concertata con le forze economiche e sociali ed affidata ad un Organismo di espressione governativa (un CIPE speciale o un Ministero per lo sviluppo sostenibile) dotato dei necessari poteri.

Le linee di azione e le priorità della PSI dovranno essere collegate agli obiettivi definiti negli strumenti generali, quali la Strategia d'azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia 2002 ­ 2010 approvata con delibera CIPE 2 agosto 2002, il PICO (Programma Innovazione, Crescita Occupazione) la strategia per il rispetto degli impegni di Kyoto e dei nuovi impegni in tema di emissioni di CO2.

La PSI dovrà contribuire, in modo sinergico con le politiche generali, ad aggredire i nodi strategici per il futuro del Paese, che scaricano costi diretti o indiretti sul sistema economico ed incidono sulla qualità della vita dei cittadini, condizionano lo sviluppo economico e possono vanificare gli sforzi per il rilancio di una crescita compatibile con i vincoli della nuova economia post carbonica.

La PSI dovrà attivare procedure "trasparenti" per la individuazione dei progetti e le relative localizzazioni utilizzando al meglio la Valutazione ambientale strategica, la Valutazione dell'impatto ambientale e la valutazione costi/benefici, con procedimenti che coinvolgano i cittadini ed i territori interessati fin dalle fasi iniziali del processo decisionale. Il PRI ritiene che i nodi strategici che la PSI deve aggredire e dai quali dipendono la competitività e la sostenibilità del modello economico futuro che dobbiamo costruire sono: l'energia, i trasporti e la logistica, le risorse idriche, i rifiuti, l'assetto del territorio e dei sistemi urbani. Tutte le infrastrutture adibite a questi settori dovranno essere considerate "strategiche", ed inserite nel procedimenti della "programmazione strategica delle infrastrutture del Paese".

In questo contesto, il mondo imprenditoriale che ruota attorno alle tematiche dello sviluppo sostenibile e quello altrettanto importante relativo al settore agricolo, potrebbero svolgere un ruolo importante

La realtà agricola è oggi abbastanza desolante e con essa i nostri agricoltori devono quotidianamente convivere e lottare.

La presa di coscienza di questa realtà suscita in noi con forza la volontà di dare agli agricoltori un segnale di cambiamento che rappresenti la prima pietra su cui costruire una nuova politica di rilancio agricolo.

Dobbiamo ridare dignità alla nostra agricoltura ed assicurare all'agricoltore un reddito decoroso che gli permetta di continuare a svolgere il suo lavoro e con esso conservare il paesaggio agricolo, tutelare l'ambiente ed a produrre cibo genuino.

Il rilancio del settore agricolo è un obiettivo di cui si sente parlare da tempo e da più parti, ma sino ad oggi nessuno ha manifestato una reale volontà di affrontare in maniera decisa e concreta un'azione di risoluzione dei problemi che affliggono l'agricoltura.

PROSPETTIVE POLITICHE

Politica significa cambiamento, significa vedere le cose per come sono e pensare che possono essere diverse.

Politica è il contrario di stabile, rigido, immutabile.

Ogni repubblicano interessato alla politica deve sempre prefigurare un cambiamento dell'esistente.

Bisogna tenere conto dell'esistente pensando a un futuro diverso e migliore.

Oggi in un mondo globalizzato al centro di uno scontro di civiltà la politica non dovrebbe produrre finzioni mediatiche e violente della condizione umana, ma dovrebbe partire dal dato di fatto per trovare una forma capace di affrontare i problemi per quello che sono.

Una chiave interpretativa delle vicende storiche nazionali è stato il richiamo ad un paese reale, contrapposto a quello legale. Era stato così nell'Italia pre-fascista, quando la nascita dei grandi partiti di massa, fioriti in concomitanza con la prima grande modernizzazione voluta da Giovanni Giolitti, aveva reso improvvisamente obsoleto un sistema politico, che si conservava all'insegna del trasformismo e dei giochi di palazzo. Fu l'inizio della fine del fragile esperimento liberale che dischiuse le porte alla marcia su Roma e l'avvento del fascismo. Negli anni precedenti il sistema elettorale non era stato in grado di dare stabilità al sistema, coniugando le esigenze dell'istituto della rappresentanza con la necessità di garantire al Paese un governo efficiente che, sulla spinta della prima globalizzazione, ne affrontasse i nodi strutturali. La crisi del '21, riflesso delle spinte massimaliste della sinistra più estrema, che si concluse con l'occupazione delle fabbriche, portò al potere un nuovo ceto politico che risolse il problema in radice. Dando al paese reale una rappresentanza politica, il regime appunto, che governò l'Italia per il successivo ventennio.

L'attualità di queste antiche vicende non sta nei rischi di una possibile involuzione autoritaria. Troppa acqua è passata, nel frattempo, sotto i ponti. Il tessuto democratico del Paese è fuori discussione. I grandi riferimenti internazionali, gli Stati Uniti e l'Europa, sono un potente vaccino a presidio delle libertà. La stessa sinistra massimalista, sebbene a volte contigua con movimenti e formazioni combattenti che si richiamano alle esperienze terroristiche degli anni '70, non ha quella massa critica necessaria per rappresentare un pericolo reale. Eppure quella chiave interpretativa, seppure in forme nuove, mantiene una grande attualità. Ancora una volta il paese reale non corrisponde al paese legale. O meglio è la maggioranza reale del paese che non corrisponde a quella legale.

Si guardi ai fondamentali del dibattito politico. Intendendo con questa espressione non i fatti contingenti, ma quelli di più lungo periodo. La stragrande maggioranza del popolo italiano è consapevole dei rischi e delle necessità del paese. Vive con grande allarme lo stato latente di crisi in cui versa. Sono anni, ormai, dalla lontana crisi del 1992, che lo sviluppo potenziale dell'Italia cresce meno che nei 50 anni di storia precedente. Assiste attonita ad una perdita di competitività e di prestigio che accentua le distanze relative con tutti i paesi concorrenti: a partire da quelli europei. Vede accentuarsi gli squilibri tra Nord e Sud, dove dilaga una criminalità che è, essa stessa, figlia del mancato sviluppo. Teme per la grande dispersione del patrimonio industriale, realizzato negli anni precedenti. Se si esclude la FIAT, tornata solo recentemente e grazie ad un nuovo intervento dello Stato ­ la concessione della mobilità lunga ­ a produrre utili, le altre grandi aziende del Paese sono andate disperse. Acquistate dagli stranieri o semplicemente dimesse. La vendita o la svendita delle grandi aziende pubbliche ha prodotto un deserto. Sarà anche vero che il processo di privatizzazione avviato, come recita l'ultimo DPEF, sia stato secondo solo al Giappone. Ma certo è che il nanismo imprenditoriale italiano non trova riscontro in nessun altro paese sviluppato. La stessa Finlandia, fino a ieri ai margini dello sviluppo economico, può vantare posizioni di eccellenza in campi in cui l'Italia è completamente assente. Se non avessimo l'ENI, l'ENEL e Finmeccanica ­ non a caso ex aziende pubbliche ­ la presenza italiana sarebbe caratterizzata solo da un pugno di medie aziende, importanti ma inadeguate per reggere ai ritmi della competizione globale.

E il processo continua. Basta che una nuova iniziativa abbia successo, come nel caso di Fastweb, per divenire immediatamente oggetto delle mira dei concorrenti esteri. Imprese, come nel caso in specie, che hanno il supporto pieno del loro Governo. In Italia, invece, aziende come Alitalia ed ora Telecom, dopo una serie di clamorosi errori - l'eccessiva presenza sindacale nel primo caso, una privatizzazione inconcludente nel secondo ­ sono lasciate alla mercé di una logica di mercato che ci vede estranei.

Paradossalmente a difendere la bandiera italiana resta solo MEDIASET: l'unica impresa che, in tutti questi lunghi anni, è riuscita a mantenere e sviluppare le sue posizioni, creando occupazione e ricchezza non solo per i suoi proprietari, cosa normale in una economia di mercato, ma per l'intero Paese. Frutto di un legame incestuoso con la politica? Forse. Ma che dire degli altri? Della FIAT, appunto, o di alcuni grandi banchieri che non fanno mistero dei loro legami politici e di partito.

Questi ultimi operano da tempo in un sistema chiuso, sottratto alla concorrenza internazionale. Non è necessariamente un male. Sempre che queste barriere non si traducano in un'autarchia che deresponsabilizza e trasforma in pura rendita il necessario profitto. E' allora che questo impero si trasforma in un colosso dai piedi d'argilla in grado di utilizzare la grande ricchezza finanziaria delle famiglie, ma incapace di dare impulso al sistema economico e di elaborare adeguate strategie di sviluppo. L'Italia non è la Germania. Né il "modello renano", centrato sulle grandi banche in grado di supportare lo sviluppo complessivo del Paese, si inventa dall'oggi al domani. Non si crea se quello sforzo non è accompagnato da una condivisione più ampia. Se quella maggioranza reale non trova gli strumenti politici, per far sentire la propria voce e pesare sugli equilibri complessivi.

Questa contraddizione non risolta rischia di vanificare ogni sforzo individuale. Quello dei singoli imprenditori, che in assoluta solitudine, cercano di conquistare nuovi sbocchi alle loro produzioni. Che si fanno carico, con le proprie finanze aziendali, dei costi impropri delle inefficienze del sistema. Che comprimono i margini di profitti nel tentativo di reggere alla concorrenza di prezzo. Che costituiscono all'estero proprie rappresentanze, mentre regioni, province e comuni, spesso in competizione tra loro, organizzano lussuose rappresentanze per uso e consumo delle proprie elites burocratiche.

La grande massa lavoratrice non è da meno. Ha subito il forte contenimento dei salari reali. Accettato che una parte del proprio reddito, a seguito dell'avvento dell'euro, si sia tradotto in un premio alle piccole rendite di posizione a favore dei settori protetti dell'economia: distribuzione, professioni, servizi pubblici inefficienti. Ha ridimensionato il proprio livello di vita. I consumi languono. Nel periodo 1996 ­ 2001 erano cresciuti in media del 2,4 per cento all'anno. Nel quinquennio successivo quel tasso si è ridotto ad uno striminzito 1 per cento. Eppure nonostante questo sacrificio di massa, il sistema economico non regge. Non regge perché la produttività specifica e quella globale dei fattori è cresciuta ancor meno. Per cui un eventuale aumento dei consumi non si traduce in una maggior ricchezza prodotta, non è di stimolo all'offerta interna, ma determina solo un aumento delle importazioni.

I giovani, poi, sono le vittime principali di questo stato di cose. Subiscono la necessaria flessibilità del mercato del lavoro, ma anche l'altra faccia della medaglia dell'eccesso di protezione per gli insiders. Nelle aziende, nella pubblica amministrazione, nei servizi sono confinati nella parte più bassa della piramide gerarchica. Tanto lavoro, poco salario e nessuna protezione. Mentre i protetti dal potere sindacale detengono, indisturbati, posizioni di privilegio. Sono gli intoccabili, i nuovi mandarini di una società che non vuole e non riesce ad essere dinamica. Che non rischia per il proprio futuro, ma attende solo che il potere politico, la maggioranza legale, distribuisca qualche mancia in più, per garantirsi la base di consenso funzionale all'auto - perpetuazione.

Dobbiamo rompere questo circolo vizioso. Dare finalmente la parola ad una maggioranza reale che, se ben orientata, è capace di imporre una svolta e riprendere un cammino interrotto. Non chiediamo ulteriori sacrifici, in termini di reddito e di benessere. Non vogliamo sminuzzare una torta sempre più piccola e, per definizione, insufficiente a soddisfare legittime aspirazioni. Chiediamo, invece, solo un maggiore impegno. Che significa lavorare meglio e di più. Investire nelle aziende e nel futuro. Modernizzare il paese a partire da strutture pubbliche vetuste ed anacronistiche. Sviluppare le grandi infrastrutture materiali ed immateriali. Una scuola che funziona, che seleziona le élite dirigenti per il merito e non con il tran tran burocratico e lassista. Un grande progetto per produrre quelle risorse necessarie per affrontare vecchie e nuove povertà. Una società più solidale non nella rivendicazione di semplici diritti. Ma nel contributo che ciascuno può dare ad un destino comune.

Questi sentimenti esistono nella maggioranza reale del Paese. Possono essere sopiti da una cultura infingarda e da un sistema mass-mediale che fa leva sull'insegnamento di cattivi maestri, ai quali la storia più recente ha tolto credibilità ed autorevolezza. Ma esistono. Si tratta solo di farli riemergere dopo una lunga fase di silenzio. Ecco allora l'importanza di colmare il vuoto tra maggioranza reale e maggioranza legale. La politica deve tornare ad essere, com'è del resto in tutti i paesi europei ed occidentali, elemento di guida e di indirizzo. Non di contrapposizione ideologica, funzionale al mantenimento di uno status quo che si nutre dei cascami del ‘900. Potrà realizzare questo obiettivo solo se il sistema politico troverà in sé, anche a prescindere dalla tipologia del sistema elettorale, la forza di ristrutturarsi unendo i simili: gli uomini e le donne di buona volontà.

Non è quello che accade oggi. Le divisioni all'interno dei due schieramenti politici che si contendono la leadership sono forse più profonde di quelle che dividono alcune componenti dei medesimi. Qualsiasi argomento si prenda in considerazione, dalle pensioni, alla politica estera; dai DICO ai temi dell'immigrazione; dalla giustizia alla sicurezza; la contrapposizione tra il centro dello schieramento e le ali estreme è più forte di quello esistente tra le posizioni di frontiera. Tra Mastella e Casini; tra noi ed i riformisti dell'Unione; tra le diverse componenti socialiste, nel merito dei problemi, le differenze sono fisiologiche. Oggetto di possibili trattative e mediazioni. Tra la maggioranza dei due schieramenti e le culture minoritarie delle ali estreme, invece, queste differenze sono patologiche. Appartengono cioè a sistemi di valori incompatibili, tenuti insieme solo dall'istinto di sopravvivenza lungo la frontiera del puro potere.

Naturalmente tra il centro-destra e la sinistra-centro esistono differenze che sarebbe miope non vedere. A partire dai rispettivi rapporti di forza. Nell'Unione, la sinistra massimalista ­ quella che va da Rifondazione al Correntone dei DS ­ pesa elettoralmente per circa il 15 per cento. Lega e statalisti di AN meno della metà. Alle differenze di peso si accompagnano inoltre i distinti profili culturali e programmatici. La sinistra massimalista si porta le grandi tragedie del "secolo breve". Culture che, nella realtà italiana, sono ancora radicate e che richiedono tempo per essere metabolizzate e rifiutate. La loro forza di attrazione, specie per le nuove generazioni, deperisce rapidamente. Non altrettanto avviene per i più anziani, portati a sublimare il ricordo del bel tempo perduto. E la sinistra vive soprattutto del rimpianto e della difesa degli interessi minacciati da una modernità prorompente che, per affermarsi, deve abbattere i residui del passato. Non abbiamo dubbi su chi vincerà la partita. Il problema è dato dai tempi. Opporsi al nuovo significa solo ritardare un processo, alla lunga inevitabile; consentendo tuttavia ai nostri concorrenti internazionali di conquistare posizioni di vantaggio relativo, che non sarà facile, poi, recuperare.

Diverso è il caso del centro-destra. Le culture minoritarie hanno storie diverse. Gli statalisti di AN non sono dissimili dai loro opposti, che militano a sinistra. Anzi, spesso, la trasmigrazione è una regola costante. Conservano un potere di interdizione, ma non sono in grado di imporre le loro strategie. Se non in settori marginali. La Lega è, invece, una forza contraddittoria. E', in qualche modo, se non altro per ragioni anagrafiche, il prodotto della modernità. Ma, al tempo stesso, il figlio prodigo che nega le ragioni del padre; rifugiandosi in riti ancestrali. Si pensi solo all'ampolla sul Po. Condanna l'euro, inseguendo la teoria delle piccole patrie. Ma non capisce che localismo e globalizzazione sono i due aspetti di una stessa medaglia. Senza l'uno non esisterebbe l'altro e viceversa. Il problema, quindi, non è la difesa dell'albero dell'ulivo, per riprendere un vecchio best seller americano ­ forse uno dei migliori libri sulla globalizzazione ­ contro la Lexus, la Limousine made in USA. Ma ritrovare il giusto rapporto tra fenomeni che hanno una stessa matrice storica ed una relazione funzionale.

Non si resti in superficie. Chi conosce la biografia politica di Umberto Bossi, sa bene quanto egli sappia utilizzare lo stratagemma della "doppiezza". L'agitazione strumentale della piazza, con parole d'ordine mobilitanti come la "secessione contro Roma ladrona", per poi sedersi al tavolo della trattativa, in difesa del proprio insediamento territoriale. Il suo limite è la difesa corporativa, non dinamica, degli interessi colà presenti. Come dimostra la strenua difesa delle pensioni di anzianità, particolarmente estese nel Nord del paese. Una strategia che funziona finché prevale l'immobilismo di governo. Ma che può essere facilmente smontata nel momento in cui il processo di riforma dovesse, effettivamente, decollare. In questa chiave lo stesso tema del federalismo, può essere un'occasione. Per modernizzare gli apparati pubblici dello Stato, per attrezzare meglio le politiche pubbliche in funzione della disarticolazione produttiva indotta dai processi di globalizzazione. Che richiedono una maggiore specializzazione produttiva in funzione delle vocazioni delle singole aree singole aree territoriali dove si vive con maggiore preoccupazione anche il problema dell'inserimento qualificato degli immigrati che sta creando seri problemi al nostro Paese.

Sarebbe, in tal senso, necessario effettuare una più efficace politica di controllo dei flussi in entrata e una regolamentazione più qualitativa per gli stranieri presenti in Italia, attraverso una migliore integrazione.

Non esistono quindi limiti insormontabili affinché la maggioranza reale del Paese possa parlare con un'unica voce, pur nell'articolazione di un dibattito, la cui ricchezza è elemento da valorizzare. I repubblicani sono consapevoli di far parte di questo più ampio schieramento di forze sociali e culturali. Hanno addirittura la presunzione di costituirne la punta di diamante. Non solo per la loro storia. Ma perché portatori, da sempre, di una visione in cui la sintesi degli interessi generali faceva premio su ogni altra considerazione. Non sono pertanto disponibili a cambiare atteggiamento. Opereranno, invece, con coerenza per far sì ch'essa alla fine possa esprimersi. Anche al di là dei limiti e delle contraddizioni dell'attuale sistema politico.

Sono una forza di destra o di sinistra? La domanda è mal posta e contraddice tutto il ragionamento finora svolto. Nella loro cultura sono presenti, se proprio si vuol far riferimento a queste vecchie categorie, elementi dell'uno e dell'altro versante. Equità e crescita economica non sono elementi contrapposti. L'uno è il presupposto dell'altro. E viceversa. La mancanza di equità, alla lunga, strozza lo sviluppo. Ma se il Paese non cresce non c'è alcunché da ripartire se non l'indigenza generalizzata. Ed allora essere di destra o di sinistra dipende dalle circostanze. Dal grado di benessere conseguito, dalla dimensione degli squilibri sociali, dalle priorità che, di volta in volta, caratterizzano l'evoluzione economica e sociale del Paese. Un dato solo rimane costante: l'appartenenza a questa maggioranza reale ed il rifiuto di ogni pulsione minoritaria.

Queste sono state, del resto, le grandi coordinate che hanno guidato, in questi anni, l'azione del partito. Siamo stati nel centro ­ destra, perché convinti di interpretare le grandi aspirazioni del Paese. Specie nel momento in cui il crollo del comunismo reale ne svelava le tragiche illusioni. Ma non siamo mai stati contrari al riformismo di ispirazione socialista. Anzi, con queste forze, abbiamo sempre collaborato. E con esse abbiamo fatto grande l'Italia. Nei loro confronti non abbiamo quindi preclusioni di sorta. Anche oggi siamo disposti a riprendere la vecchia strada. Ma non ci si chieda di giurare sulle sorti progressive di un'ideologia che non ci è mai appartenuta. Né di rifiutare l'insegnamento di quella storia che da Mazzini ai nostri giorni è stata la nostra unica, vera maestra di vita.

Con queste armi affronteremo i problemi del riassetto costituzionale. Esigenza imprescindibile se si vuole dare voce alla maggioranza reale del Paese. Sulle soluzioni tecniche non ci pronunciamo. Vedremo le proposte. Le esamineremo con spirito libero nell'interesse dell'Italia. Non abbiamo avversione di sorta rispetto a modelli stranieri. Può andar bene sia una legge elettorale alla tedesca, che il modello francese. L'importante è correggere questo bipolarismo che divide i simili e costringe ad alleanze innaturali. Che inganna il popolo costringendolo a schierarsi su falsi bersagli per difendere il passato e negare il futuro. L'importante è non creare altri steccati artificiosi, ma correggere il profilo delle istituzioni del Paese, facendogli ritrovare quella coesione nazionale che è il presupposto del nostro domani.

Non vogliamo sopprimere le voci dissonanti. Spetta loro un naturale "diritto di tribuna", che è cosa, tuttavia distinta, dalla dura fatica del governo di un paese. Ai giovani che protestano, che sono alla ricerca di una propria identità, non neghiamo la piazza. Cerchiamo solo di dire: guardate bene in fondo alla vostra mente. Non scambiate i desideri per la realtà. Le missioni impossibili sono solo un'invenzione cinematografica che non dà frutti, ma solo lutti e sofferenza. Il mondo è sempre più complesso di ogni sua rappresentazione. E di questa complessità, anche voi, nonostante il giovanile entusiasmo, se volete crescere, dovete farvi carico.

Sono questi i ragionamenti più complessivi che guidano l'azione del partito nella sua quotidianità.

IL PARTITO

"Gli uomini non sono spinti ad agire dalle cose in se stesse ma dalle idee se per loro esse rappresentano" (Epitteto).

Mazzini diceva: "Il Partito più forte è il Partito più logico. Non vi contentate d'un semplice senso di ribellione nei vostri, o d'incerte, indefinite dichiarazioni di liberalismo: chiedete a ciascuno la sua credenza e non accettate se non gli uomini la credenza dei quali è concorde colla vostra. Non fate assegnamento sul numero ma sull'unità della forza".

Nel fondo della Voce Repubblicana del 2 giugno 2006 scrivevo: "I dirigenti nazionali non si rendono conto dei notevoli sacrifici, anche politici, dei militanti che operano sul territorio. Essi sono la linfa vitale che consente a pochi, pochissimi, di rappresentare il PRI nelle più alte Istituzioni del Paese".

E' ad essi che mi rivolgo per dare corso a quella "rivoluzione morale, politica, statutaria, organizzativa, dirigenziale" necessaria per poter dire qualcosa di positivo ai giovani ed alle future generazioni.

Un Partito moderno, comunque lo si giudichi, deve essere un Partito di lotta, e deve esserlo al di là ed al di sopra delle contingenze tattiche.

Tuttavia, per un Partito moderno non può essere il "cesarismo" la stella polare della sua organizzazione. A maggior ragione per un Partito come il nostro di modeste dimensioni numeriche.

E' necessario che le decisioni siano condivise il più possibile, ma quando sono prese dagli organismi a ciò titolati devono diventare strumenti di lotta politica.

Nella nostra pur modesta organizzazione lo strumento di "Delega base - Direzione Nazionale", o "Direzione Nazionale ­Segreteria" va esercitato quando si prende coscienza fino in fondo della bontà delle idee e dei supporti per realizzarle.

E' vero però che i delegati (dirigenti) tendono a perpetuare lo status quo, abusando talvolta proprio del potere che deriva dalla loro delega.

Può capitare che il dirigente abbia una delega per un tempo limitato, ma che lo stesso dirigente la usi come un bene personale. E talvolta l'istituto delle dimissioni diventi uno strumento per ribadire la supremazia di chi quelle dimissioni ha presentato.

Offrire le proprie dimissioni potrebbe sembrare, all'apparenza, un gesto altamente democratico se non celasse uno spirito in qualche forma autoritario teso a ribadire la propria supremazia.

Sinceramente non credo che nel Partito Repubblicano Italiano tutto questo sia avvenuto o possa avvenire.

E' necessario, però, coniugare l'essere con l'apparire, tenendo soprattutto conto del carico pesante che ci portiamo appresso con tutta la nostra storia.

Il PRI ha sempre avuto un'organizzazione debole, la cui struttura nel passato, come oggi, non aveva altri compiti se non quelli di divulgare il Repubblicanesimo.

In questo c'è la bellezza di una democrazia diretta, cui partecipano tutti i militanti (basti vedere come si svolgono i Congressi: dalla sezione direttamente alla platea congressuale).

Per contro, una struttura organizzativa siffatta, impedirebbe la possibilità di decisioni rapide ed efficaci.

Nel nostro Paese a mio avviso predomina il bisogno di uguaglianza e sicurezza, non di libertà.

La libertà viene spesso confusa con la democrazia, ma la libertà non si esprime con il ricambio delle classi dirigenti. In uno Stato liberale la libertà si valuta con la capacità e la forza delle barriere che proteggono l'individuo da altrui intenzioni.

Democrazia è il predominio delle maggioranze. I repubblicani, per la loro storia di secolare minoranza, nella dualità dei due concetti Democrazia e Libertà hanno scelto e continueranno a scegliere la Libertà, che sarà sempre la negazione dell'anarchismo e qualsiasi ideologismo.

Noi, per fortuna, non abbiamo mai avuto leadership "professionali". I leaders, o se si vuole i Segretari del PRI, non sono mai stati funzionari di partito. Anche in questo caso però, si è accentuata l'idea che il leader debba essere portatore di superiorità intellettuale. Ciò è necessario, ma non sufficiente a determinare la nascita, la vita e l'operato di un leader. Un Partito non è un centro culturale, ma una sommatoria di interessi generali per la composizione dei quali si deve portare a sintesi l'azione politica del Partito.

Nemmeno la sola intelligenza politica, per quanto forte, potrebbe assicurare ad alcuno la possibilità di dirigere un partito.

L'intelligenza umana è una materia complessa che prevede la capacità di comprendere i fatti, la necessità di avere chiari i concetti e di discernere tra i vari concetti e soprattutto la capacità di adattamento a situazioni nuove.

Ed in ultimo, la forza intellettuale per potere comunicare ad altri ciò che si è metabolizzato. "Il silenzio evidenzia il velo dell'incapacità".

Ricordando un Repubblicano che non è più tra noi, potremmo usare le sue parole per definire un politico: "Egli non può proporsi mete non raggiungibili, non può procedere con strumenti legislativi o amministrativi inadeguati, non può operare interventi che determinino effetti diversi o addirittura opposti a quelli voluti, non può eccitare esigenze, suscitare attese e creare aspirazioni, se non ha la certezza dei mezzi per poterle soddisfare".

Seguendo questi principi ho formato la mia attività politica di Segretario.

Forse sbagliando, ma era oggettivamente difficile seminare su un terreno pieno di rovi se prima i rovi non venivano sradicati.

I rovi sono stati le contrapposizioni interne, quasi sempre accompagnate da insulti reciproci e la necessità prioritaria di mettere ordine nei bilanci del Partito.

Penso che mi si possa dare atto che, pur permanendo le contrapposizioni politiche, non ci sono più gli insulti, e che i bilanci del PRI, pur con debiti consistenti , sono in ordine.

Ho rivolto la mia attenzione, quindi, alla risoluzione di problemi in quelle circostanze prioritariamente vitali per la vita di Partito, se si vuole con eccesso di realismo, ma null'altro a mio avviso poteva essere fatto di diverso o di aggiuntivo, per il non lungo tempo concessomi e per la grande difficoltà interna ai suddetti problemi. E tuttavia, ho accompagnato quest'azione pragmatica pensando sempre di tenere alta la bandiera dell'autonomia del PRI rispetto ai nostri alleati politici, agendo sempre per trarre il Partito fuori dalle secche in cui si era infossato per anni, riportandolo sullo scenario politico nazionale e se si vuole, con un po' di esagerazione, su quello internazionale.

Basti ricordare l'incontro con Bush del giugno 2004 a cui partecipò l'allora Presidente del Partito, malgrado l'incontro fosse riservato solo ad uomini di Governo.

La replica ci fu a fine ottobre del 2005 in un incontro, di cui ero stato promotore, tra il Presidente del Consiglio, l'allora Presidente del PRI e l'ambasciatore degli Stati Uniti.

Fu lo stesso giorno in cui manifestai all'allora Presidente del partito la mia intenzione di essere candidato come capolista al Senato e non altro.

Mi sono candidato alla Camera dei Deputati compiendo un errore.

E' stato un errore che non si dovrebbe più ripetere. E l'approvazione quasi unanime della Direzione Nazionale a presentare la mia candidatura attenua il mio pentimento, ma non lo cancella affatto.

In futuro dobbiamo creare le condizioni perché ci siano liste in cui il logo dell'Edera possa ancora leggersi come simbolo e metafora di una vera identità politica.

In questo periodo, esattamente un anno prima della consultazione elettorale per il rinnovo del Parlamento, ero riuscito a portare il PRI al Governo del Paese, dopo quattordici anni di assenza e per giunta in un dicastero congeniale alla nostra storia: quello delle Politiche Comunitarie.

Il piano di Lisbona proposto al Consiglio dei Ministri, che l'ha approvato, e poi alla Commissione Europea, era il fiore all'occhiello dei Repubblicani. Poteva e doveva essere una svolta nella comunicazione dell'operare repubblicano. Così non è stato.

Come sempre i Repubblicani fanno le cose e si preoccupano di non farle sapere. Avrei desiderato un maggiore coinvolgimento dei Repubblicani nelle decisioni che si andavano ad assumere a livello istituzionale, quand'anche gli eventuali suggerimenti e proposte non venissero accolti.

Queste sono le discrasie delle quali parlavo nell'articolo di fine anno sulla "Voce".

Per la prima volta non abbiamo un parlamentare europeo. L'accordo con la lista Sgarbi è stato, ai fini del consenso, un errore fatale ed autolesionista.

Per il futuro bisogna essere attenti nelle alleanze e soppesare i rischi. E non era la prima volta che ci si inerpicava su sentieri politici fallimentari. Ci vuole un raccordo più stretto e più convinto tra la dirigenza nazionale e le organizzazioni locali del PRI.

Bisogna ascoltare il popolo repubblicano ogni qualvolta ci siano decisioni importanti da prendere: ascoltarlo e riascoltarlo, se non bastasse.

E nel coinvolgimento reciproco va data, e non concessa, maggiore autonomia alle decisioni delle federazioni e delle consociazioni provinciali anche attraverso una eventuale revisione dello Statuto.

In questo scenario, che potrebbe far apparire il PRI come in irreversibile crisi, vanno però aggiunte alcune cose molto positive.

Per la prima volta dopo trenta anni, ritorneranno al PRI vecchi amici, talvolta singolarmente, tal'altra collettivamente con intere sezioni, ma chiedono di aderire al PRI anche esponenti di movimenti o di piccole formazioni politiche che intravedono nel nostro Partito uno strumento adeguato per esercitarsi in battaglie politiche improntate ad una serena laicità di pensiero. Chiedono adesioni anche militanti della Federazione Giovanile degli anni '70 - '80.

Infine, e qui mi sia consentita un'orgogliosa rivendicazione personale, è viva e vegeta la Federazione Giovanile Repubblicana guidata da Giovanni Postorino.

Eravamo partiti nel 2000 da Chianciano ed erano, lo ricordo ancora, dieci ragazzi che volevano fare battaglie politiche, pur con una estrema esiguità di numeri.

Oggi sono 350 sparsi omogeneamente in tutta Italia. Se ce l'hanno fatta loro a crescere, proviamoci anche noi, …finché possiamo!!!

C'è scritto da qualche parte:

"So che non c'è da scommetterci, ma so anche che non c'è altro cui io possa pensare".