45° Congresso dell'Edera La relazione introduttiva del segretario nazionale rivendica l'autonomia del partito Nucara: l'esperienza dei repubblicani al servizio di un'Italia che vuole cambiare Relazione del segretario nazionale, 45° Congresso del Pri, Roma, Hotel Ergife, 30 marzo 200. di Francesco Nucara Ragione è Libertà INTRODUZIONE Ci avviamo verso la celebrazione del 45° Congresso del Partito Repubblicano Italiano. I Congressi dei partiti si tengono per scadenze statutarie (quasi mai) o per ragioni politiche. Tra le ragioni politiche c'è anche il rinnovamento della classe dirigente, che in generale, ma soprattutto per un piccolo partito come il nostro, non è meno importante della politica delle alleanze o della politica tout-court. A tutto questo va aggiunta anche la ragione vera per cui il Segretario del PRI ha proposto già da luglio 2006, ed il Consiglio ha approvato quasi all'unanimità, la celebrazione del nostro Congresso. A metà giugno del 2006 Giorgio La Malfa, con un ragionamento politico che il Segretario non condivideva, ha deciso di dimettersi da Presidente del Partito. Orbene per storia, per statuto, per prassi consolidata, il Presidente del Partito non è mai entrato in collisione con il Segretario per fatti politici . E se qualche volta è avvenuto (Visentini), il risultato è stato un impoverimento del PRI, sia sul piano politico che sulla qualità del gruppo dirigente. Come ho scritto sulla "Voce", un sodalizio politico durato più di quarant'anni "ha rischiato di lacerarsi", e proprio perché non volevo che questo avvenisse, chiesi più volte a Giorgio La Malfa di recedere da questa sua decisione. Ed a nulla è valso l'appello della Direzione Nazionale e gli interventi di tanti amici nel Consiglio Nazionale, che concluse i suoi lavori l'8 di luglio del 2006 con la presa d'atto delle dimissioni del Presidente. Il partito in questi anni è stato gestito dal binomio La Malfa - Nucara. Se il binomio diventa monomio è un problema politico non irrilevante. Se la collaborazione intensa di questi anni si è esaurita per una questione che io tuttora giudico non dovesse essere dirompente, e che tuttavia lo è stata, vuol dire che ci sono problemi di spessore ben più consistente della singola questione (riforme costituzionali). Ed è per ragioni politiche e non personali, che non ho accolto l'invito a dimettermi da Segretario Nazionale. Ed allora è giusto che un Congresso che rappresenta "il tribunale del popolo repubblicano", decida, e decida in via definitiva, chi può e chi deve rappresentarlo. Contestualmente si apre una stagione di Congressi di gran parte delle forze politiche del paese (UDC, Margherita, DS) e potremmo correre il rischio di rimanere assenti dal dibattito politico in corso. Su questa coincidenza dobbiamo riflettere. Il congresso dei due principali partiti della sinistra si apre all'insegna di una ricerca e di una abiura. Per i cattolici della Margherita si tratta di dare corpo ad un sogno coltivato da tempo. Unirsi con i post comunisti, nel ricordo del compromesso storico. Far rivivere, cioè, la stagione che consentì a quella forza politica di isolare i suoi competitori più pericolosi: le forze laiche e quelle del socialismo democratico. Una strategia d'attesa - ma chi poteva allora prevederlo? - che sui guasti economici e sociali di quell'esperienza avrebbe aperto le porte al fenomeno di "mani pulite". Un assalto in piena regola contro l'intera classe dirigente italiana che ne avrebbe amplificato le colpe fino a determinarne la decimazione. Quelle macerie hanno travolto quasi tutte le forze politiche italiane di ispirazione borghese, ma non i comunisti - comunque pienamente coinvolti nei fenomeni di corruzione - né l'ex sinistra democristiana che ora può riprendere le fila di un più antico discorso. Per i post comunisti siamo invece nel campo dell'abiura. Crollato quel sistema, non abbiamo assistito ad alcuna autocritica sincera. Nessuna condanna per i crimini commessi. Nessuna riflessione autentica sugli errori teorici compiuti. Il silenzio è sceso su quelle rovine. Come se i paesi delle democrazie popolari - oggi questo nome fa ridere - non fossero mai esistiti. Ma con il comunismo anche l'esperienza socialista è relegata in una soffitta polverosa. E poco importa se quella forza è oggi una delle componenti essenziali degli equilibri europei. Ma per i post comunisti, si sa, l'Europa è solo un'icona da portare in processione contro la politica estera americana. Ieri imperialista, oggi unilaterale. Ma sempre da combattere e contrastare. L'approdo di quella revisione verso una sponda socialista sarebbe stata la cosa più logica. Ma questo non è avvenuto perché altrimenti si sarebbe dovuto riconoscere che uomini come Saragat, Nenni o lo stesso Bettino Craxi, con i quali fummo alleati leali, avevano ragione e di conseguenza avevano torto Togliatti, Longo e Berlinguer. Meglio quindi rimuovere tutto, ignorando le critiche costruttive di uomini come Ugo La Malfa, Spadolini o Visentini e passare armi e bagagli verso il partito che non c'è. E che forse non ci sarà mai. Dobbiamo insistere su quelle vicende. I comunisti di allora volevano essere i profeti di una cultura millenaria. Sono stati solo la setta di un Dio minore al quale hanno sacrificato ogni briciolo di umanità. Quante vite spezzate in un sogno palingenetico che ben presto si è trasformato in un incubo. Quanti giovani hanno sacrificato il loro futuro: vittime degli insegnamenti dei cattivi maestri. Si battevano per la rivoluzione e il crollo dello Stato borghese. Hanno ucciso per questo, pensando che con un gesto risoluto ed arrogante si potesse trasformare, in un incanto, ciò che non piaceva. Ma che era comunque migliore del mondo vagheggiato per il quale combattevano. Una grande e tragica superbia. I repubblicani fanno parte del più antico partito italiano. Non hanno mai avuto visioni salvifiche. Non sono andati mai alla ricerca dell'essenza delle cose, che è il demone nascosto di ogni visione ideologica. Con umiltà, il loro orizzonte teorico non è andato mai oltre il lento accumulo dell'esperienza empirica. Hanno avuto come bussola il presente e come orizzonte i valori della libertà e del progresso umano. Non hanno quindi bisogno di abbattere schemi deformanti. Di fare i conti con un passato ingombrante. Con un morto che tenta continuamente di afferrare e fagocitare il vivo. Uomini sereni. In pace con la loro coscienza e le proprie tradizioni. Nasce da questi presupposti la forza che ci fa comprendere il travaglio altrui. Figlio della necessità di sgombrare il campo dai fantasmi del passato per cercare di comprendere un mondo cresciuto troppo in fretta di fronte ai nostri occhi. Dietro la ricerca affannosa del partito democratico è soprattutto questo travaglio. L'esperienza degli anni passati non serve più. Occorre una nuova bussola. Ma è difficile costruire, in un unico processo, analisi del presente e strumenti cognitivi. I repubblicani non hanno bisogno di sottoporsi a questa duplice fatica. Alle loro spalle è un retroterra consolidato che la storia ha progressivamente inverato. La loro presenza si intreccia con il Risorgimento italiano, quindi con una Rinascita democratica, dopo la parentesi fascista, che è rimasta tale nonostante il tentativo di dimostrare che quelle lontane trame non erano state sconfitte dall'anelito di libertà. Infine il destino dell'Europa, come sbocco inevitabile della vicenda nazionale. L'EUROPA L'atto fondativo della Giovine Europa così recitava: "La Giovine Europa è l'associazione di tutti coloro i quali, credendo in un avvenire di libertà, d'eguaglianza, di fratellanza per gli uomini quanti sono, vogliono consacrare i loro pensieri e le opere loro a fondare quell'avvenire". Con il manifesto di Ventotene (1941) si dà il via alla costruzione dell'Europa. L'Europa, come concezione politica, è nel DNA dei Repubblicani. Il simbolo dell'Edera, è il simbolo della "Giovine Europa" fondata da Mazzini a Berna nel 1834. E' un patrimonio che i Repubblicani hanno sempre coltivato con continuità con Ugo La Malfa, Michele Cifarelli, Carlo Sforza, Giovanni Spadolini, fino ad arrivare recentemente alla nomina di Giorgio la Malfa a Ministro delle Politiche Comunitarie. Alla secolare battaglia repubblicana, hanno dato il loro convinto sostegno anche uomini di altri partiti, ed in primis, Alcide De Gasperi. Molto meno la Chiesa Cattolica preoccupata dalla contaminazione del protestantesimo di altri paesi europei, nelle sue varie forme. Da quel seme di Ventotene si è scatenato un susseguirsi di eventi che ad un'analisi superficiale potrebbero sembrare quasi inopportuni, viste le condizioni dell'Italia nell'immediato dopoguerra. Chi aveva in mente l'Europa, aveva un disegno strategico che andava ben oltre la situazione contingente. Poteva significare, come ha significato, al di là dei fatti economici, la fine di un' Europa teatro di guerra tra paesi confinanti. Nel 1949 nasce il Consiglio d'Europa, nel 1954 nasce la CECA. Nel 1955, su iniziativa del Ministro liberale Gaetano Martino, si svolge a Messina una Conferenza cui partecipano i suoi colleghi di Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Erano le basi per il Mercato Comune Europeo e per la Comunità Europea dell'energia. Nel 1957 a Venezia, su iniziativa del Ministro belga Spaak (la cui figlia anni dopo fu candidata del PRI alle elezioni europee), si autorizzò la stesura di due Trattati per dare vita alla CEE ed all'EURATOM. Messina, Venezia, Roma: l'Italia era la Nazione più impegnata nella costruzione dell'Europa politica. Sempre nel 1957 a Roma i sei paesi fondatori firmarono i Trattati che diedero vita alla CECA ed all'EURATOM. I Trattati vennero firmati a Roma in Campidoglio nella sala degli Orazi e dei Curiazi il 25 marzo del 1957. Erano sei i paesi firmatari. Nella stessa sala il 29 ottobre del 2004 fu firmata la Costituzione per l'Europa. I paesi firmatari questa volta erano 25. Nel 1979 ci fu la prima elezione a suffragio universale del Parlamento Europeo. E' giusto ricordare quello che il Ministro Martino ebbe a dire nel suo discorso dopo la firma dei Trattati il 25 marzo 1957: "Noi Italiani sentiamo il bisogno di ringraziare particolarmente due nomi: Alcide De Gasperi e Carlo Sforza, i cui spiriti aleggiano oggi in questa sala a significare consenso ed incoraggiamento". Queste sono solo le premesse storiche di un avvincente impegno che i Repubblicani devono continuare a mantenere per la costruzione di un'Europa politica. Ad essa ha corrisposto una coerenza di comportamenti che non è facile ritrovare nelle altre forze politiche italiane. Non abbiamo dimenticato le vicende del 1979. Quell'anno segnò la fine dell'esperienza della solidarietà nazionale. La rottura politica avvenne sullo SME: l'inizio di quel lungo processo che porterà prima la nascita del mercato unico europeo, quindi alla costruzione dell'Europa monetaria. Si trattava di legare l'andamento della lira alle altre valute europee in un rapporto di concambio che ne attenuasse le oscillazioni. A favore del progetto votarono la DC e le forze laiche. I socialisti si astennero. I comunisti votarono contro e fu la fine di un compromesso che Berlinguer qualificò come storico. Ma che durò solo lo spazio di un mattino. Quella antica coerenza ci consente di vedere, con lucidità, i limiti di questa Europa. Non siamo soddisfatti dell'Europa dei banchieri, di un'Europa prigioniera degli egoismi nazionali, senza un esercito per una politica di difesa comune soprattutto quando sulla politica estera si cerca una via comune, pur nelle difficoltà di "grandeur" ormai scomparse. Sono stati fatti passi importanti, significativi di un processo di integrazione economica che dovrà diventare integrazione politica. Il nostro obiettivo sarà quello di fare nascere un Governo Europeo che sostituisca, in via definitiva, la Commissione Europea. Una sommatoria di commissari designati dai vari Governi dei paesi membri, non costituisce affatto un Governo Europeo. Un Governo che affronti in maniera unitaria i problemi della globalizzazione, dei cambiamenti climatici, dell'energia, della sicurezza. Per agire in questo senso, i Repubblicani hanno un riferimento preciso dal quale non intendono allontanarsi, anzi è nei loro obiettivi il rafforzamento: l'ELDR, il partito Europeo dei liberali, democratici e riformatori. L'ITALIA NELLO SCENARIO INTERNAZIONALE La prima preoccupazione del Partito è sempre data dallo scenario internazionale: come si evolve politicamente, quale è lo stato delle relazioni con gli alleati dell'Italia e soprattutto come si deve collocare il nostro paese, per mantenere saldi i suoi ideali e le sue aspirazioni occidentali. Il Partito Repubblicano si è assunto l'onere e l'onore, nel corso del secolo scorso, di voler rappresentare più di ogni altro partito i vincoli atlantici a cui ci sentivamo legati. Abbiamo vinto la guerra fredda, la minaccia sovietica si è dissolta, il mondo nel suo complesso è cambiato profondamente - pensiamo anche solo all'autentica rivoluzione del modo di vita di questi ultimi decenni. Eppure la questione della piena occidentalizzazione dell'Italia resta un problema aperto. Non solo: ma se gli scenari sono mutati, i problemi sono rimasti e forse se ne sono aggiunti degli altri. Vivere sotto la minaccia nucleare, per chi se lo ricorda, non era facile. C'era sempre la possibilità di una deflagrazione totale del nostro mondo e abbiamo affrontato e superato crisi terribili, penso ancora a quella dei missili a Cuba nel 1960. Ma la devastazione più grande del secondo dopoguerra non si è avuta fortunatamente a causa di un ordigno nucleare, ma per un'azione inimmaginabile, almeno fino ad allora, di un commando suicida che dirotta due aerei, li fa precipitare su New York provocando danni terribili e spettacolari. Se pensiamo che poi quanto successo, si è riprodotto in scala minore a Madrid e a Londra, con effetti comunque terribili, abbiamo compreso come il nostro stesso concetto di sicurezza abbia subito un colpo durissimo. Infatti con mezzi minimali, dietro cui si celavano potenti organizzazioni internazionali, si è potuto attaccare le nostre città e metterle a rischio elevato. La minaccia rappresentata dal terrorismo nella sua variante dell'integralismo fondamentalista è per certi versi ancora più inquietante e drammatica di quella che si conosceva durante la guerra fredda. Anche perché è più difficile da individuare e da combattere. Tra l' Urss e l'Occidente c'era pur sempre un filo di tramite, una linea rossa per così dire, anche nei conflitti più violenti, come nel caso del Vietnam. Con il terrorismo questa linea cade completamente. Non c'è più un interlocutore, non c'è una ragione, resta solo la minaccia. Una minaccia, tuttavia, che non è figlia esclusiva dell'irrazionalismo sanfedista. Come sempre avvenuto per gli atti di terrorismo, dietro l'efferatezza si nasconde il calcolo e la strategia politica. Sarà forse un caso, ma mentre paesi come il Vietnam o la Cambogia, che negli anni passati furono teatro del confronto militare tra Occidente ed Oriente, hanno imboccato una strada di progresso di crescita economica, il Medio Oriente ristagna nell'inedia e nella disperazione. Cosa inspiegabile, se si considerano le immense ricchezze petrolifere di cui dispongono. Capaci, se correttamente utilizzate, di assicurare quel benessere economico diffuso che è la premessa di ogni pacifica convivenza, e che potrebbe consentire ad arabi e israeliani di convivere e collaborare. Il terrorismo, invece, ha scelto una strada diversa. Vuole mantenere lo status quo e quindi dirottare verso l'esterno tensioni che andrebbero invece rivolte contro un establishment incapace di assolvere ai propri doveri nazionali. Mi sono chiesto più volte cosa avrebbe dovuto fare il Presidente degli Stati Uniti d'America dopo l'11 settembre per evitare di trovarsi esposto nuovamente ad una tragedia di quelle proporzioni. Egli per prima cosa ha chiesto che venisse consegnato dal regime che lo ospitava il responsabile di quell'attentato. Quel regime non lo ha fatto e con l'azione di una grande coalizione internazionale è stato rovesciato, perché oggettivamente complice e sostenitore di un vulnus tanto grave. Questo è l'Afghanistan. Bush poteva fermarsi lì? O doveva sradicare ogni possibile minaccia, reale o presunta potesse venir rivolta nuovamente al suo Paese? Noi ci siamo accorti che non c'erano le armi di distruzione di massa in Iraq, ma ce ne siamo accorti con la dovuta certezza solo quando truppe americane ed inglesi hanno setacciato quel paese da cima a fondo. Non ci era certo possibile capirlo dalle relazioni degli ispettori dell'ONU che venivano menati per il naso, o dalle parole ambigue del capo della diplomazia irachena Tareq Aziz. Allora mi è difficile riconoscere la bontà delle argomentazioni con le quali gli Usa hanno attaccato l'Iraq, fossero le armi, o l'esportazione della democrazia, ma comprendo bene la ragione di scegliere il campo di battaglia, di allontanare i rischi dai propri confini, di far capire che con la vita dei civili americani, non si scherza. La situazione irachena è tale per la quale c'è chi sostiene apertamente in Italia ed altrove che era molto meglio quando c'era Saddam. Forse perché le nostre coscienze non erano turbate dal sangue degli attentati che abbiamo visto in questi anni, ma non certo perché quel regime non compisse delitti altrettanto efferati contro la sua popolazione, e non certo per la capacità offensiva di quel regime, che aveva condotto una guerra decennale contro l'Iran, invaso il Kuwait, minacciato Israele, sterminato i curdi. Non so se l'Iraq riuscirà ad avere un governo stabile e pacifico e in quanto tempo. So con certezza che senza Saddam Hussein quella regione è nel suo complesso più sicura e più sarà sicura più si rafforzerà l'attuale governo iracheno che è un governo rappresentativo e pacifico. Io non credo che i repubblicani possano mai provare rimpianto per un dittatore ed il suo regime. E tuttavia rimangono pesanti perplessità sulla guerra in Iraq. Perplessità che oggi inducono lo stesso Blair ad annunciare il ritiro delle truppe inglesi. Ma perplessità maggiori suscita l'azione di una parte cospicua della sinistra italiana. La sua critica unilaterale nei confronti degli Stati Uniti si traduce in un appoggio oggettivo alle classi dirigenti arabe che con il terrorismo colludono, che usano quelle forze, come dicevo in precedenza, per puntellare il loro potere al fine di utilizzare le immense ricchezze energetiche di quelle terre per i propri fini personali e di casta. Ci saremmo aspettati un atteggiamento diverso. Se la democrazia non può essere esportata, perché figlia di un processo storico caratterizzato dai suoi specifici tempi di maturazione, la mancata critica alla collusione esistente tra terroristi e sceicchi, signori del petrolio e della guerra, è particolarmente grave. Circonda infatti quei soggetti di una solidarietà che non meritano, accreditando la tesi di una colpa dell'Occidente, irriducibilmente prigioniero di una logica imperialista. Vecchi schemi non adeguatamente sottoposti a revisione. Il colonialismo del ‘900 fu indubbiamente un atto di egoismo da parte dei paesi più ricchi dell'Occidente e dell'Oriente - vogliamo forse escludere dalla critica l'URRS? - ma fu anche qualcosa di diverso. Si guardi all'Africa. Il necessario processo di emancipazione nazionale non ha regalato alcun "pranzo di gala", per riprendere una vecchia frase di Mao Tze Tung. Ma ha lasciato una lunga scia di sangue che ha tinto di rosso interi continenti. Genocidi raccapriccianti. Donne e bambini uccisi come mosche. Deportazioni di massa, come in Cambogia. Fame, malattie, disastri in guerre etniche che nessuno è in grado di fermare. Solo un residuo ideologico insuperabile impedisce ai cosiddetti "costruttori di pace" di vedere e condannare quegli orrori. Di contribuire con le armi della critica all'isolamento dei violenti, spezzando l'ingenuo cordone di solidarietà, che giustifica i crimini più efferati di fronte agli occhi di una parte della pubblica opinione. Noi repubblicani siamo perfettamente in grado di vedere queste contraddizioni. I limiti dell'azione americana, ma anche le conseguenze di un possibile ritiro dell'Occidente. In Iraq, per riprendere le mosse da dove sono partito, purtroppo, ho solo visto le polemiche per le scelte di giustizia di quel Paese. Anch'io sono contrario alla pena di morte ed in qualsiasi circostanza. Ma credo che vi sia maggiore legittimità a contestare una tale barbarie se si è impegnati sul campo come promesso. Certo, il governo italiano si è ritirato dall'Iraq ed è andato in Libano; idealmente prosegue una missione in quella tormentata regione. E' vero ed infatti abbiamo sostenuto anche questo impegno coerentemente. Ma dobbiamo anche dire che non abbiamo compreso cosa stiano facendo i nostri soldati in Libano e soprattutto che cosa dovranno fare se riesplode il contenzioso fra hezbollah ed Israele, visto che nessuno ha impedito il riarmarsi delle milizie sciite e la situazione è sempre più precaria. Ho la sincera impressione che in Libano i nostri soldati siano seduti su una polveriera. Il giorno che esploderà, non sapremo cosa potranno fare. Per questo abbiamo dato loro fin da subito la nostra solidarietà, ma non certo abbiamo approvato la scelta, presa a cuor leggero dal governo italiano. Non vorremmo che, il giorno che le armi tornassero a parlare al confine libanese israeliano, i nostri soldati finissero per essere uno scudo per hezbollah. D'altra parte le scelte di politica estera del passato governo potevano essere discutibili, ma avevano il pregio di essere chiare: l'Italia è a fianco dei suoi alleati atlantici - Usa e Gran Bretagna - si comporta come i grandi paesi continentali - non fa la guerra all'Iraq, ma non disdegna un impegno volto alla ricostruzione e al riordino di quella regione. Non c'era nessuna ambiguità in questo. Aspetto ancora che qualcuno mi spieghi come sia possibile una posizione di equivicinanza, sostenuta dall'attuale governo, fra parti che confliggono fra loro. Come si possa essere vicini a Condoleezza Rice e al contempo al Mullah Omar. Magari pensare di fare una conferenza sull'Afghanistan con entrambe le parti. Lo stesso vale per la questione arabo - israeliana. Tanto che do volentieri atto al governo di aver riconosciuto la posizione di Abu Mazen, cioè dell'autorità palestinese e non quella del governo di Hamas. Il concetto di multilateralismo che si sostiene dalla Farnesina è sbagliato, perché se c'è un conflitto non si può andare d'accordo con il governo di Gerusalemme e contemporaneamente con quello di Teheran, che vuole cancellare dalle mappe lo Stato ebraico. Tuttavia è anche interesse di Israele che Abu Mazen e Hamas si mettano d'accordo. Una intesa solo con Abu Mazen finirebbe per scatenare una guerra civile che certamente non gioverebbe allo stato di Israele. Per noi repubblicani sono sempre presenti le parole di Ugo La Malfa: "la libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme". La domanda che pongo al Congresso è se nelle attuali condizioni politiche l'Italia sia in grado di fare una scelta. Noi abbiamo visto quello che è successo in Senato nel mese di gennaio a proposito della mozione relativa alla decisione del governo di consentire l'ampliamento della base statunitense di Vicenza: l'opposizione si è espressa favorevolmente al ministro Parisi, la maggioranza, no. La maggioranza ha chiesto una conferenza contro "le servitù militari". Poi l'aula del Senato ha approvato la mozione dell'opposizione. Il governo avrebbe salvato la faccia grazie a questo voto, se non fosse che il sottosegretario agli Esteri che lo rappresentava, l'onorevole Intini, l'ha rifiutato perché considerato strumentale. Si tratta di qualcosa che non trova precedenti nella vita della Repubblica e tale per la quale il governo avrebbe dovuto dimettersi. Possiamo discutere su tutto, ma non si possono prendere le distanze dal ministro della Difesa che porta in aula il rispetto degli accordi presi con un Paese alleato. Invece non solo si discute di questo, come si discute sui nostri soldati in Afghanistan, ma si fa una grande manifestazione contro l'ampliamento della base, dove per diverse ragioni partecipano quasi tutte le forze delle maggioranza e solo a stento si evita che i sottosegretari del governo scendano in piazza contro le decisioni del loro governo. In queste condizioni che credibilità può avere sul piano internazionale l'Italia? E poteva mai il Partito Repubblicano far parte di una simile maggioranza? E per fare cosa? Io credo che questo congresso dovrà esprimere una posizione dirimente sulla politica internazionale dell'Italia, dalla quale discendano le possibilità di alleanze per una futura legislatura. Non è pensabile che la posizione del nostro Ministro degli Esteri non venga approvata dal Senato, ed il Governo ritorni alle Camere con lo stesso Ministro e la stessa posizione. Noi siamo un partito piccolo, ma un partito serio. E da partito serio vediamo esattamente quello che si sta configurando come problema principale di questo secolo, che lo ha già marcato profondamente: la guerra al terrorismo. E' una guerra che siamo chiamati a combattere contro la nostra volontà. E se è giusto preoccuparsi di evitare che si approfondisca il fossato che distingue l'occidente dall'oriente, la cultura giudaico - cristiana da quella islamica, non possiamo pensare che all'aggressione fondamentalista si risponda con una maggiore disponibilità sanitaria. Loro mettono le bombe e noi costruiamo gli ospedali. Se qualcuno mette le bombe, bisogna prenderlo, se ci fa saltare per aria, bisogna fermare i suoi mandanti. E l'unico modo è l'uso dei soldati. Dobbiamo usare tutti i canali diplomatici, ogni possibile pressione morale, i nostri servizi di intelligence, certo. Ma non possiamo precluderci questa via di soluzione. E' poi un dato di fatto che la politica statunitense in Iraq abbia mostrato un tale fiato corto da mettere in questione la stessa continuità politica alla Casa Bianca. Lo si è visto nelle elezioni del mid term. Ma pensare che domani un partito democratico ignori l'esigenza di combattere il terrorismo, di difendere Israele, di lasciare l'Iraq a se stesso nelle attuali condizioni, significa semplicemente non conoscere il partito democratico statunitense e quali sono i valori che lo guidano e lo animano. Si dice però che l'unilateralismo statunitense è stato sconfitto, che i democratici saranno più sensibili al multilateralismo, a discutere con gli altri paesi il governo del mondo. Se il multipolarismo diviene però la parola d'ordine con la quale la Russia pensa di ripresentare le sue nostalgie vetero - imperiali, con il presidente Putin, dubito fortemente sugli esiti da aspettarci. L'esperienza russa dell'attuale presidenza ricalca non solo uno schema di oppressione vagamente staliniano, in Cecenia e financo in Ucraina, ma desta preoccupazione all'interno dei confini stessi di quel paese, considerata la mancanza di adeguati diritti democratici per l'opposizione e l'aumentata tentazione da ancien regime di dare forza istituzionale ai servizi segreti spionistici. La Russia è un problema. Certo, il governo Berlusconi fece grandi aperture a Putin, ma nella speranza di svolgere una mediazione fra Mosca e Washington. Ora che non c'è più quel governo non c'è più nessuna mediazione e non vorrei che l'attuale governo sostenesse le tesi di Putin e basta. Per il momento, anche se non organicamente, si corre anche questo rischio. Per quello che ci riguarda dovremmo evitarlo. L'ITALIA NELLO SCENARIO INTERNAZIONALE La prima preoccupazione del Partito è sempre data dallo scenario internazionale: come si evolve politicamente, quale è lo stato delle relazioni con gli alleati dell'Italia e soprattutto come si deve collocare il nostro paese, per mantenere saldi i suoi ideali e le sue aspirazioni occidentali. Il Partito Repubblicano si è assunto l'onere e l'onore, nel corso del secolo scorso, di voler rappresentare più di ogni altro partito i vincoli atlantici a cui ci sentivamo legati. Abbiamo vinto la guerra fredda, la minaccia sovietica si è dissolta, il mondo nel suo complesso è cambiato profondamente - pensiamo anche solo all'autentica rivoluzione del modo di vita di questi ultimi decenni. Eppure la questione della piena occidentalizzazione dell'Italia resta un problema aperto. Non solo: ma se gli scenari sono mutati, i problemi sono rimasti e forse se ne sono aggiunti degli altri. Vivere sotto la minaccia nucleare, per chi se lo ricorda, non era facile. C'era sempre la possibilità di una deflagrazione totale del nostro mondo e abbiamo affrontato e superato crisi terribili, penso ancora a quella dei missili a Cuba nel 1960. Ma la devastazione più grande del secondo dopoguerra non si è avuta fortunatamente a causa di un ordigno nucleare, ma per un'azione inimmaginabile, almeno fino ad allora, di un commando suicida che dirotta due aerei, li fa precipitare su New York provocando danni terribili e spettacolari. Se pensiamo che poi quanto successo, si è riprodotto in scala minore a Madrid e a Londra, con effetti comunque terribili, abbiamo compreso come il nostro stesso concetto di sicurezza abbia subito un colpo durissimo. Infatti con mezzi minimali, dietro cui si celavano potenti organizzazioni internazionali, si è potuto attaccare le nostre città e metterle a rischio elevato. La minaccia rappresentata dal terrorismo nella sua variante dell'integralismo fondamentalista è per certi versi ancora più inquietante e drammatica di quella che si conosceva durante la guerra fredda. Anche perché è più difficile da individuare e da combattere. Tra l' Urss e l'Occidente c'era pur sempre un filo di tramite, una linea rossa per così dire, anche nei conflitti più violenti, come nel caso del Vietnam. Con il terrorismo questa linea cade completamente. Non c'è più un interlocutore, non c'è una ragione, resta solo la minaccia. Una minaccia, tuttavia, che non è figlia esclusiva dell'irrazionalismo sanfedista. Come sempre avvenuto per gli atti di terrorismo, dietro l'efferatezza si nasconde il calcolo e la strategia politica. Sarà forse un caso, ma mentre paesi come il Vietnam o la Cambogia, che negli anni passati furono teatro del confronto militare tra Occidente ed Oriente, hanno imboccato una strada di progresso di crescita economica, il Medio Oriente ristagna nell'inedia e nella disperazione. Cosa inspiegabile, se si considerano le immense ricchezze petrolifere di cui dispongono. Capaci, se correttamente utilizzate, di assicurare quel benessere economico diffuso che è la premessa di ogni pacifica convivenza, e che potrebbe consentire ad arabi e israeliani di convivere e collaborare. Il terrorismo, invece, ha scelto una strada diversa. Vuole mantenere lo status quo e quindi dirottare verso l'esterno tensioni che andrebbero invece rivolte contro un establishment incapace di assolvere ai propri doveri nazionali. Mi sono chiesto più volte cosa avrebbe dovuto fare il Presidente degli Stati Uniti d'America dopo l'11 settembre per evitare di trovarsi esposto nuovamente ad una tragedia di quelle proporzioni. Egli per prima cosa ha chiesto che venisse consegnato dal regime che lo ospitava il responsabile di quell'attentato. Quel regime non lo ha fatto e con l'azione di una grande coalizione internazionale è stato rovesciato, perché oggettivamente complice e sostenitore di un vulnus tanto grave. Questo è l'Afghanistan. Bush poteva fermarsi lì? O doveva sradicare ogni possibile minaccia, reale o presunta potesse venir rivolta nuovamente al suo Paese? Noi ci siamo accorti che non c'erano le armi di distruzione di massa in Iraq, ma ce ne siamo accorti con la dovuta certezza solo quando truppe americane ed inglesi hanno setacciato quel paese da cima a fondo. Non ci era certo possibile capirlo dalle relazioni degli ispettori dell'ONU che venivano menati per il naso, o dalle parole ambigue del capo della diplomazia irachena Tareq Aziz. Allora mi è difficile riconoscere la bontà delle argomentazioni con le quali gli Usa hanno attaccato l'Iraq, fossero le armi, o l'esportazione della democrazia, ma comprendo bene la ragione di scegliere il campo di battaglia, di allontanare i rischi dai propri confini, di far capire che con la vita dei civili americani, non si scherza. La situazione irachena è tale per la quale c'è chi sostiene apertamente in Italia ed altrove che era molto meglio quando c'era Saddam. Forse perché le nostre coscienze non erano turbate dal sangue degli attentati che abbiamo visto in questi anni, ma non certo perché quel regime non compisse delitti altrettanto efferati contro la sua popolazione, e non certo per la capacità offensiva di quel regime, che aveva condotto una guerra decennale contro l'Iran, invaso il Kuwait, minacciato Israele, sterminato i curdi. Non so se l'Iraq riuscirà ad avere un governo stabile e pacifico e in quanto tempo. So con certezza che senza Saddam Hussein quella regione è nel suo complesso più sicura e più sarà sicura più si rafforzerà l'attuale governo iracheno che è un governo rappresentativo e pacifico. Io non credo che i repubblicani possano mai provare rimpianto per un dittatore ed il suo regime. E tuttavia rimangono pesanti perplessità sulla guerra in Iraq. Perplessità che oggi inducono lo stesso Blair ad annunciare il ritiro delle truppe inglesi. Ma perplessità maggiori suscita l'azione di una parte cospicua della sinistra italiana. La sua critica unilaterale nei confronti degli Stati Uniti si traduce in un appoggio oggettivo alle classi dirigenti arabe che con il terrorismo colludono, che usano quelle forze, come dicevo in precedenza, per puntellare il loro potere al fine di utilizzare le immense ricchezze energetiche di quelle terre per i propri fini personali e di casta. Ci saremmo aspettati un atteggiamento diverso. Se la democrazia non può essere esportata, perché figlia di un processo storico caratterizzato dai suoi specifici tempi di maturazione, la mancata critica alla collusione esistente tra terroristi e sceicchi, signori del petrolio e della guerra, è particolarmente grave. Circonda infatti quei soggetti di una solidarietà che non meritano, accreditando la tesi di una colpa dell'Occidente, irriducibilmente prigioniero di una logica imperialista. Vecchi schemi non adeguatamente sottoposti a revisione. Il colonialismo del ‘900 fu indubbiamente un atto di egoismo da parte dei paesi più ricchi dell'Occidente e dell'Oriente - vogliamo forse escludere dalla critica l'URRS? - ma fu anche qualcosa di diverso. Si guardi all'Africa. Il necessario processo di emancipazione nazionale non ha regalato alcun "pranzo di gala", per riprendere una vecchia frase di Mao Tze Tung. Ma ha lasciato una lunga scia di sangue che ha tinto di rosso interi continenti. Genocidi raccapriccianti. Donne e bambini uccisi come mosche. Deportazioni di massa, come in Cambogia. Fame, malattie, disastri in guerre etniche che nessuno è in grado di fermare. Solo un residuo ideologico insuperabile impedisce ai cosiddetti "costruttori di pace" di vedere e condannare quegli orrori. Di contribuire con le armi della critica all'isolamento dei violenti, spezzando l'ingenuo cordone di solidarietà, che giustifica i crimini più efferati di fronte agli occhi di una parte della pubblica opinione. Noi repubblicani siamo perfettamente in grado di vedere queste contraddizioni. I limiti dell'azione americana, ma anche le conseguenze di un possibile ritiro dell'Occidente. In Iraq, per riprendere le mosse da dove sono partito, purtroppo, ho solo visto le polemiche per le scelte di giustizia di quel Paese. Anch'io sono contrario alla pena di morte ed in qualsiasi circostanza. Ma credo che vi sia maggiore legittimità a contestare una tale barbarie se si è impegnati sul campo come promesso. Certo, il governo italiano si è ritirato dall'Iraq ed è andato in Libano; idealmente prosegue una missione in quella tormentata regione. E' vero ed infatti abbiamo sostenuto anche questo impegno coerentemente. Ma dobbiamo anche dire che non abbiamo compreso cosa stiano facendo i nostri soldati in Libano e soprattutto che cosa dovranno fare se riesplode il contenzioso fra hezbollah ed Israele, visto che nessuno ha impedito il riarmarsi delle milizie sciite e la situazione è sempre più precaria. Ho la sincera impressione che in Libano i nostri soldati siano seduti su una polveriera. Il giorno che esploderà, non sapremo cosa potranno fare. Per questo abbiamo dato loro fin da subito la nostra solidarietà, ma non certo abbiamo approvato la scelta, presa a cuor leggero dal governo italiano. Non vorremmo che, il giorno che le armi tornassero a parlare al confine libanese israeliano, i nostri soldati finissero per essere uno scudo per hezbollah. D'altra parte le scelte di politica estera del passato governo potevano essere discutibili, ma avevano il pregio di essere chiare: l'Italia è a fianco dei suoi alleati atlantici - Usa e Gran Bretagna - si comporta come i grandi paesi continentali - non fa la guerra all'Iraq, ma non disdegna un impegno volto alla ricostruzione e al riordino di quella regione. Non c'era nessuna ambiguità in questo. Aspetto ancora che qualcuno mi spieghi come sia possibile una posizione di equivicinanza, sostenuta dall'attuale governo, fra parti che confliggono fra loro. Come si possa essere vicini a Condoleezza Rice e al contempo al Mullah Omar. Magari pensare di fare una conferenza sull'Afghanistan con entrambe le parti. Lo stesso vale per la questione arabo - israeliana. Tanto che do volentieri atto al governo di aver riconosciuto la posizione di Abu Mazen, cioè dell'autorità palestinese e non quella del governo di Hamas. Il concetto di multilateralismo che si sostiene dalla Farnesina è sbagliato, perché se c'è un conflitto non si può andare d'accordo con il governo di Gerusalemme e contemporaneamente con quello di Teheran, che vuole cancellare dalle mappe lo Stato ebraico. Tuttavia è anche interesse di Israele che Abu Mazen e Hamas si mettano d'accordo. Una intesa solo con Abu Mazen finirebbe per scatenare una guerra civile che certamente non gioverebbe allo stato di Israele. Per noi repubblicani sono sempre presenti le parole di Ugo La Malfa: "la libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme". La domanda che pongo al Congresso è se nelle attuali condizioni politiche l'Italia sia in grado di fare una scelta. Noi abbiamo visto quello che è successo in Senato nel mese di gennaio a proposito della mozione relativa alla decisione del governo di consentire l'ampliamento della base statunitense di Vicenza: l'opposizione si è espressa favorevolmente al ministro Parisi, la maggioranza, no. La maggioranza ha chiesto una conferenza contro "le servitù militari". Poi l'aula del Senato ha approvato la mozione dell'opposizione. Il governo avrebbe salvato la faccia grazie a questo voto, se non fosse che il sottosegretario agli Esteri che lo rappresentava, l'onorevole Intini, l'ha rifiutato perché considerato strumentale. Si tratta di qualcosa che non trova precedenti nella vita della Repubblica e tale per la quale il governo avrebbe dovuto dimettersi. Possiamo discutere su tutto, ma non si possono prendere le distanze dal ministro della Difesa che porta in aula il rispetto degli accordi presi con un Paese alleato. Invece non solo si discute di questo, come si discute sui nostri soldati in Afghanistan, ma si fa una grande manifestazione contro l'ampliamento della base, dove per diverse ragioni partecipano quasi tutte le forze delle maggioranza e solo a stento si evita che i sottosegretari del governo scendano in piazza contro le decisioni del loro governo. In queste condizioni che credibilità può avere sul piano internazionale l'Italia? E poteva mai il Partito Repubblicano far parte di una simile maggioranza? E per fare cosa? Io credo che questo congresso dovrà esprimere una posizione dirimente sulla politica internazionale dell'Italia, dalla quale discendano le possibilità di alleanze per una futura legislatura. Non è pensabile che la posizione del nostro Ministro degli Esteri non venga approvata dal Senato, ed il Governo ritorni alle Camere con lo stesso Ministro e la stessa posizione. Noi siamo un partito piccolo, ma un partito serio. E da partito serio vediamo esattamente quello che si sta configurando come problema principale di questo secolo, che lo ha già marcato profondamente: la guerra al terrorismo. E' una guerra che siamo chiamati a combattere contro la nostra volontà. E se è giusto preoccuparsi di evitare che si approfondisca il fossato che distingue l'occidente dall'oriente, la cultura giudaico - cristiana da quella islamica, non possiamo pensare che all'aggressione fondamentalista si risponda con una maggiore disponibilità sanitaria. Loro mettono le bombe e noi costruiamo gli ospedali. Se qualcuno mette le bombe, bisogna prenderlo, se ci fa saltare per aria, bisogna fermare i suoi mandanti. E l'unico modo è l'uso dei soldati. Dobbiamo usare tutti i canali diplomatici, ogni possibile pressione morale, i nostri servizi di intelligence, certo. Ma non possiamo precluderci questa via di soluzione. E' poi un dato di fatto che la politica statunitense in Iraq abbia mostrato un tale fiato corto da mettere in questione la stessa continuità politica alla Casa Bianca. Lo si è visto nelle elezioni del mid term. Ma pensare che domani un partito democratico ignori l'esigenza di combattere il terrorismo, di difendere Israele, di lasciare l'Iraq a se stesso nelle attuali condizioni, significa semplicemente non conoscere il partito democratico statunitense e quali sono i valori che lo guidano e lo animano. Si dice però che l'unilateralismo statunitense è stato sconfitto, che i democratici saranno più sensibili al multilateralismo, a discutere con gli altri paesi il governo del mondo. Se il multipolarismo diviene però la parola d'ordine con la quale la Russia pensa di ripresentare le sue nostalgie vetero - imperiali, con il presidente Putin, dubito fortemente sugli esiti da aspettarci. L'esperienza russa dell'attuale presidenza ricalca non solo uno schema di oppressione vagamente staliniano, in Cecenia e financo in Ucraina, ma desta preoccupazione all'interno dei confini stessi di quel paese, considerata la mancanza di adeguati diritti democratici per l'opposizione e l'aumentata tentazione da ancien regime di dare forza istituzionale ai servizi segreti spionistici. La Russia è un problema. Certo, il governo Berlusconi fece grandi aperture a Putin, ma nella speranza di svolgere una mediazione fra Mosca e Washington. Ora che non c'è più quel governo non c'è più nessuna mediazione e non vorrei che l'attuale governo sostenesse le tesi di Putin e basta. Per il momento, anche se non organicamente, si corre anche questo rischio. Per quello che ci riguarda dovremmo evitarlo. (prima parte) |