45° Congresso Pri No al vecchio blocco sociale sì alla nuova unione dei laici Congresso di Roma, 31 marzo 2007. di Widmer Valbonesi Care amiche e cari amici, vorrei dare un contributo unitario a questo congresso, a me la coreografia di questo congresso non dispiace, anzi c'è una mostra dell'amico Michele Spera che è un programma politico e credo che di questo dobbiamo ringraziarlo tutti. Visitatela e vi accorgerete che lì c'è tutta la nostra tradizione, c'è un programma di quello che noi dovremmo fare per il futuro. Le bandiere, diversamente da quelle della conferenza programmatica sono nuove ma non sono bianche, quelle bandiere bianche che davano il senso di una resa e che spinsero me ad attaccarmi un cartello sul petto e scriverci "io non mi arrendo". Io non mi arrendo nemmeno stavolta ma voglio capire che cosa vuol dire "condividere per cambiare" se è un appello all'unità dobbiamo capire: cambiare cosa? Allora io do una mia interpretazione di questo "condividere per cambiare". Cambiare la politica di questo partito e del nostro paese, perché il bipolarismo delle estreme non aiuta a risolvere i problemi strutturali del paese che è avviato al declino non da oggi, e non per responsabilità dell'uno o dell'altro, ma almeno da vent'anni è avviato al declino. Economia globale Siamo nell'economia globale e solo il dieci - quindici per certo delle nostre industrie si è attrezzato per affrontare il mercato globale, in questo c'è la crisi del capitalismo italiano. Un debito pubblico che è il 106% del PIL, un reddito che si sviluppa molto di meno dei grandi paesi asiatici, e questo è abbastanza normale, ma si sviluppa anche molto meno dei nostri paesi alleati europei. Quando sento dire che siamo in ripresa perché siamo passati dallo 0,7 all'1,8/9% dello sviluppo è vero invece che noi abbiamo perso lo 0,7/8% rispetto alla media europea, e questo ci deve preoccupare perché questo ci fa perdere mercato, ci fa perdere competitività perché siamo un paese che è al di sotto della normalità a livello della modernità infrastrutturale, perché è un paese che non fa scelte verso il sistema della scienza, verso il sistema della ricerca e verso il sistema dell'istruzione. Abbiamo una organizzazione dello stato, che è a dir poco elefantiaca, organizzata su centinaia di livelli, abbiamo un blocco parassitario nel nostro paese che esiste ad alimentare il clientelismo della sinistra e della destra che si articola, vi do un dato degli ultimi dieci anni, in oltre novecento società per azioni pubbliche per un giro di affari di circa 87 miliardi di euro. Quando sento dire qui che bisogna privatizzare Hera, sono d'accordo, ma voi lo sapete che nel nostro paese in dieci anni, si è passati da 30 a 900 società per azioni pubbliche che gestiscono servizi per i cittadini e le imprese? E' lì che si annida il clientelismo, è lì che si annida il piombo sulle ali del possibile sviluppo del paese, è lì che si annida una politica che è contraria a quelle politiche di investimento, a quella concorrenzialità che può dare una prospettiva moderna al nostro paese. Lo sapete che su 100 lavoratori 72 o sono pensionati o hanno tra i 40 e i 64 anni ? Il che sottrae risorse alle possibilità di sviluppo strutturale per le giovani generazioni. Lotta per il potere Le nostre istituzioni sono governate da leader che non sono statisti per cui il nostro paese anziché sfidarsi su come affrontare e risolvere i problemi del paese secondo l'interesse generale, si sfida su una lotta per la conquista del potere. Si produce un federalismo che non produce ammodernamento ma burocrazia che non riduce i tempi decisionali della politica, non affronta la qualità della spesa pubblica, aumenta solo la conflittualità tra lo stato e le altre organizzazioni periferiche del nostro paese. Allora ecco una forza politica come la nostra, che è una forza riformatrice, che è da sempre collocata sul fronte della cultura dell'interesse generale di governo. Ugo La Malfa diceva sempre che noi rappresentiamo la cultura dell'interesse generale e in virtù di questo noi siamo sempre al governo anche quando siamo all'opposizione perché, quando critichiamo, lo facciamo nell'ottica dell'interesse generale del paese. Ma allora che cos'è che rende riformatori? Che cos'è che rende statisti? Che cos'è che rende possibile una trasformazione graduale della società? E' uno schema politico che anziché disputarsi il blocco parassitario del paese deve sfidarsi sulle grandi scelte di innovazione del paese stesso. Guardate che noi rischiamo veramente il declino. Qualcuno in questi giorni presentando libri, citando Ugo La Malfa, diceva che noi dobbiamo rivedere tutta la nostra impostazione, che siamo stati keynesiani in economia e che Keynes è superato. Certo se abbiamo una visione localistica dell'economia e della politica, allora Keynes è superato. Cioè se lasciamo che sia il mercato a decidere le scelte di libertà oltre che economiche nel nostro paese e in Europa, allora può darsi che sia superato. Io credo invece nell'Europa politica e credo che lì si debbano produrre a livello di reti infrastrutturali le condizioni, le scelte e le risorse perché i paesi europei affrontino la sfida mondiale. Allora lì ci sono delle scelte infrastrutturali che coinvolgono anche il nostro paese, il corridoio cinque, il corridoio otto, il corridoio adriatico, che possono fare del nostro paese o la porta d'ingresso dell'Europa verso i nuovi mercati, oppure essere bypassati al di là delle Alpi e diventare il sud dell'Europa. Questo è quello che si discute e lì c'è l'attualità dell'Europa politica e delle scelte di politica keynesiana a livello sovranazionale. Servono schemi diversi Allora occorre uno schema politico diverso da questo tarato sulle estreme, che si blocca, e dove la politica di governo insegue ideologismi, insegue clientelismi e modelli riformatori che sono piccoli, come dimostrano le proposte di privatizzazioni, e dove l'opposizione non incalza il governo, non su grandi progetti di riforma ma per inseguire le categorie, perché lo schema bipolare è questo ed è inadeguato. La fase nuova deve significare una fase politica nuova ma per una politica di governo nuova. A questo paese servono larghe intese, amici repubblicani, serve una politica nuova, ho l'impressione che si trascini una fase politica di mediocrità per le diffidenze reciproche. Quando io sento Prodi alla televisione scimmiottare la sinistra massimalista del paese, quella che Ugo La Malfa non amava, che però non gli impediva di credere, e lì era la sua grandezza, che bisognasse allargare e rendere più forte il disegno riformatore e democratico, non gli impediva di confrontarsi col PCI. Quando sento Prodi, di fronte ad una domanda di un giornalista che gli chiede: "ma voi avete trattato coi talebani per la liberazione di Mastrogiacomo?" e lui risponde: "sono contento di poter dire che sono stato io , sono contento di poter dire al mondo che oggi abbiamo liberato un uomo". Io non credo che questa sia la politica che serve al nostro paese e ai paesi occidentali per affrontare una minaccia come quella rappresentata dal terrorismo, che va affrontata globalmente e con la determinazione necessaria. Ma qual è stata la risposta dell'opposizione amici repubblicani? C'era un modo per trovare un ruolo diverso più responsabile per il nostro paese, unitario; si andava alla Camera e si diceva: "qui avete i numeri noi ci asteniamo - l'opposizione - però siamo pronti a votare tutti al Senato qualora si possano contrattare regole d'ingaggio diverse, più garantiste, di intervento". Invece alla Camera si è votato in un modo e 15 giorni dopo al Senato si è giocata la carta della politica interna per affrontare un problema di politica estera. Ma voi credete che i democratici americani, cui da sempre va la mia simpatia politica e il mio rispetto, abbiano reso più forte la battaglia contro il terrorismo negando il finanziamento per il mantenimento delle truppe in Iraq oltre il 2008, o non credete che quella decisione sia stata una battaglia di politica interna che ha indebolito la possibilità della lotta al terrorismo nel mondo? E se questo vale per i democratici americani vale anche per l'opposizione nel nostro paese che poteva dire: certo che questa politica doppia di D'Alema e Prodi è sbagliata, ma ho l'impressione che sia stato fatto perché la debolezza di Prodi che dialoga con la sinistra estrema è funzionale ad un Berlusconi che ha bisogno di essere quello che a sinistra mette insieme tutti gli odi di quelli che non la pensano come lui, e a destra tutti quelli che possono essere spaventati da questo pericolo. E' uno schema sbagliato, perché voglio capire come mai il giorno dopo le elezioni Berlusconi dice "larghe intese", dimostrando un senso di responsabilità verso le prospettive riformatrici di questo paese, come ha fatto Schoeder, a parti invertite, il quale ha detto: piuttosto che dover dialogare con la parte massimalista di La Fontaine preferisco allearmi con la Merkel, perché abbiamo problemi strutturali in Germania da affrontare, come sta facendo l'Austria, come farà la Danimarca. Quelli si stanno attrezzando per affrontare i nodi strutturali con una politica keynesiana che si potrebbe fare in Europa se noi avessimo la capacità di rilanciare l'Europa politica, cosa che possiamo fare solo se le forze riformatrici di destra e di sinistra non tirano una riga divisoria nel mezzo ma collaborano al rilancio di una politica europea e ad una politica di rilancio di modernità di tutto il continente europeo per renderlo più forte, unito, dialogante, amico, alleato degli USA ma anche capace di promuovere politiche serie e innovative a livello del mondo. Massimalismo Allora voglio capire come può aiutare la politica di Prodi che occhieggia al massimalismo della sinistra estrema, come può aiutare ciò un processo come quello del Partito democratico, che spero non si faccia, anche perché quando sento parlare di Partito democratico - a prescindere da Giuseppe Mazzini che nel 1846 scrisse il manifesto dei democratici europei, da Ugo la Malfa, da Giovanni Amendola e Giovanni Spadolini - io dico che quello è un pasticcio democratico, altro che partito democratico. Ma in tutti i casi questa fase riformatrice non viene aiutata da queste posizioni filo massimaliste di Prodi, allora io credo ci sia una diffidenza che va superata, c'è un'aspirazione che si coglie in D'Alema quando dice basta con questa sinistra estrema, c'è un'aspirazione che si coglie in Rutelli quando dice "comincio ad avere nostalgia dei primi governi di centro sinistra quando c'erano i democristiani, i socialisti, i repubblicani, i socialdemocratici", si capisce in Casini, il quale va aiutato quando si pone il problema del superamento del bipolarismo. Noi dobbiamo sapere che questo è un nostro alleato nella lotta vitale per noi, e per il nostro paese di rottura di questo bipolarismo delle estreme. Ma dobbiamo sapere che in questa lotta i compiti sono diversi, noi abbiamo il compito strategico di organizzare, e mi fa piacere che finalmente anche la maggioranza, il segretario, l'ha detto nella sua relazione: l'area laica, liberal-democratica europea anche nel nostro paese. I socialisti devono organizzare l'area socialista, il mondo cattolico si deve organizzare, ma non su di un' ipotesi di interdizione di tutto. Noi non possiamo essere relegati ad una sorta di doroteismo di potere che fa il pendolo verso politiche ancora assistenziali; se Casini vuol fare una politica seria e innovativa noi lo dobbiamo aiutare, lo dobbiamo aiutare. Dobbiamo far superare le diffidenze che hanno Rutelli e D'Alema verso Berlusconi, e di Berlusconi verso Rutelli e D'Alema. Ho l'impressione, io lo posso dire, in fondo non ho la responsabilità di nulla, ho la sensazione che D'Alema e Rutelli siano pronti a far cadere il governo Prodi perché capiscono che non si può continuare a reggere a lungo un paese con un voto al Senato o sui voti dei senatori a vita, ma hanno bisogno di un interlocutore che non dica di andare subito al voto, altrimenti è chiaro che non si fa nulla. Il nostro ruolo E d'altronde Berlusconi non può dire di andare alle larghe intese se è una politica che dura due mesi; ecco allora il nostro ruolo di garanzia, amici repubblicani, e cioè quello di dire al paese e alle forze politiche che si giustifica una politica delle larghe intese più lunga di due, tre mesi, ma per il tempo necessario ad affrontare i nodi strutturali del nostro paese, la riforma elettorale ma anche quelle riforme strutturali, quelle riforme della pubblica amministrazione, della spesa pubblica, innovative, che diano una prospettiva di sviluppo al nostro paese. E i riformisti di centro-sinistra e i riformisti di centro-destra ci devono essere e noi ci dobbiamo arrivare organizzati, amici repubblicani, avendo organizzato un area politica che è quella laica. Io non credo che noi possiamo continuare ad accettare che questa ambiguità del sistema bipolare che prevede la partecipazione di tutto il mondo cattolico, ci faccia sfuggire quella che è una vera emergenza democratica rappresentata da uno stato che è sempre più confessionale, e dall'ingerenza della CEI, di Ruini e del Papa nei confronti dello stato italiano. C'è una concezione nella posizioni della chiesa che non è solo un problema di libertà ma è una concezione che impedisce di fatto anche la realizzazione di alcune riforme strutturali, attraverso una serie di rivendicazioni o di politiche assistenziali si creano le povertà, si creano i bisogni, le emarginazioni, favorendo le corporazioni più forti ed amiche, poi con politiche assistenziali di frammentazione della spesa sociale si svolge la funzione di elargitore di carità. In questa logica si favorisce il volontariato che nasconde il lavoro nero, si rendono strutturali i lavori socialmente utili, si impedisce l'emancipazione verso il controllo delle nascite nei paesi più poveri per poi accoglierli come clandestini, come prostitute da redimere o come manovali della delinquenza organizzata. La scienza viene quotidianamente sottoposta ai ricatti moralistici delle gerarchie ecclesiastiche e, nonostante il Concordato lo vieti, assistiamo a pesantissimi interventi della chiesa cattolica sulle questioni politiche ed amministrative dello stato italiano. Diritti civili Esiste una questione prioritaria per il nostro paese in materia di diritti civili che si chiama affermazione della laicità dello stato. La conferenza episcopale, il Papa, e il cardinale Ruini devono rivolgere le loro omelie alle coscienze dei cattolici, non possono lanciare continui appelli a bloccare leggi di emancipazione e di affermazione dei diritti civili a parlamentari che hanno giurato fedeltà alla Costituzione Repubblicana - non alla chiesa cattolica. Se un cattolico non vuole usare il preservativo, se non vuole abortire, se non vuole usare la pillola, se non vuole farsi curare con le cellule staminali, se non vuole divorziare, lo faccia. Ma la laicità dello stato consiste nel dare la possibilità a chi invece lo vuol fare, come in tutte le democrazie, di poterlo fare. L'essere cattolico consiste nell'essere coerente con la propria religione e coscienza, non impedire agli altri di essere liberi di professare il loro credo secondo il dettato costituzionale. Il tutto avviene senza che si levi nel paese alta la protesta delle coscienze laiche nel rivendicare la libertà e la laicità dello stato facendo intendere che questa è una battaglia di civiltà. Mi sono chiesto: va accettato l'invito unitario del segretario? Che cosa ha detto che consenta a noi di provare di fare qualcosa di unitario? Io credo che i repubblicani devono sempre confrontarsi, in questo sta la loro capacità di essere coerenti e di essere repubblicani, confrontarsi politicamente, mai fare questioni personali di amicizie o cose di questo genere. Nucara poteva dire di più, io ho provato a dirlo, forse quello che io ho detto è un passo più avanti di quello che lui dice, ma insomma, stanotte, siccome non dormivo, di solito quando non dormo scrivo, ma stanotte invece ho provato a pensare a cosa poteva dire di più di quello che ha detto. Allora ho capito che nella relazione del Segretario non si fa riferimento alla esperienza del Governo Berlusconi nel quale peraltro erano presenti un ministro e un vice ministro Repubblicani, esperienza giudicata negativa per il paese da parte della minoranza nazionale. Se non è stata consumata una riga per commentarla, ho dedotto che questa non doveva essere stata un'esperienza esaltante. Il segretario ha detto più volte in questo periodo che è finita la nostra esperienza con la Casa delle libertà, a dire il vero lui ha più volte detto che noi non avevamo un rapporto con la Casa della libertà ma con F.I.; mi pare che incamminandoci verso questo nuovo percorso non arrivi a dire questo, ma insomma è un segnale che bisogna cogliere. Prendo atto che il Segretario ha detto più volte che fu un grave errore farsi eleggere alla Camera nelle liste di Forza Italia in presenza di liste con l'Edera al Senato. Ho preso atto che nelle consultazioni per la soluzione della crisi del Primo Governo Prodi la delegazione del PRI ha proposto una ipotesi di larghe intese, ipotesi non sostenuta né da Forza Italia né da An né dalla Lega. Ho preso atto che nella intervista del Segretario Nazionale al Corriere della Sera del 25.02.2007 si annunciano posizioni di marcata autonomia di giudizio rispetto al centro destra e possibili voti favorevoli dei Repubblicani a provvedimenti del governo in tema di economia e politica estera; prendo atto dopo sei anni che finalmente il segretario nazionale dice nella relazione che l'autonomia alle federazioni locali va data, non concessa. Riconoscimento Questo rappresenta il riconoscimento di una battaglia che come minoranza abbiamo combattuto e vinto in nome della tradizione autonomistica che il partito romagnolo scrisse nel primo statuto del partito repubblicano nazionale. Per noi che l'abbiamo fatta questa battaglia da sei anni non è poco, non è affatto poco. Il che non vuole dire disconoscere il valore di una politica nazionale, ma vuol dire che come la politica nazionale dà valore prioritario alla politica della cultura dell'interesse generale, questo deve essere l'elemento prevalente anche a livello locale. Perché noi siamo un partito di frontiera che guarda prima all'interesse del paese e anche delle comunità locali. Io pensavo che da questo clima unitario si dovesse partire per dare un segnale forte al nostro congresso, che si poteva procedere uniti verso questo obbiettivo. Appello Stamattina ho colto delle critiche più o meno giuste, io mi sento di fare un appello a tutti coloro che si sentono classe dirigente, un appello all'unità, alla tolleranza, al rispetto delle altrui opinioni secondo i principi repubblicani che ci sono stati consegnati perché li trasmettiamo come in una staffetta simbolica ai giovani che vedo qui, che ho invitato a non essere subito conformisti. Il loro ruolo può essere grande se sviluppano politiche per i giovani mai in modo settoriale, sempre inquadrati in quella visione di metodo delle scelte prioritarie che noi abbiamo appreso da maestri come Ugo La Malfa. Ma la loro presenza è maggiormente giustificata se essi costituiscono uno stimolo per il partito, e non appiattirsi su questo o su quello. I giovani ci sono ed è bene che ci siano. Allora bisogna andare a dei momenti di rinnovamento che si coniughino con la tradizione, ci deve essere la volontà sostanziale di superare la diaspora di tutti i repubblicani. Questo è un appello che voglio fare a tutti i repubblicani, quelli che sono qui, quelli che ci hanno abbandonato a destra come a sinistra; io credo che in queste loro esperienze, ovunque siano collocati, che essere divisi rende tutti più deboli, se non sono uniti non solo sui valori ma anche da un disegno strategico comune allora contano pochissimo. Allora dobbiamo aprire le porte, essere tolleranti, non abbiamo bisogno che si inchinino per rientrare nel partito. Bisogna aprire le porte anche agli intellettuali, Ugo La Malfa non li voleva organici, ma aveva un grande rispetto per gli intellettuali, prendo atto della precisazione che ha fatto il segretario nazionale, mi è sufficiente a farmi capire che non ha un problema con la cultura e con gli intellettuali, credo però che noi dobbiamo aprire le porte a coloro che vogliono venire a dare un contributo di idee al nostro partito, sapendo che quello che è in gioco è un grande disegno politico dove c'è la sorte del nostro partito e le sorti del nostro paese. Per questo possono essere messe da parte anche piccole questioni personali e ritrovare il senso di un rispetto reciproco, di un impegno comune. Se sapremo essere uniti e poterci proiettare all'esterno uniti, il nostro ruolo e quello dei liberal-democratici italiani ed europei è ancora possibile, anche se fossimo inizialmente pochi. Qualcuno dice che saremmo un rigagnolo ma, come diceva Ugo La Malfa, "si può essere in pochi perché si è un residuo del passato o si può essere in pochi perché si guarda avanti, lontano nell'avvenire". Noi crediamo che siano residui del passato le forze che ripropongono il vecchio blocco sociale e che nell'avvenire ci sia lo spazio di una cultura laica, liberal-democratica e repubblicana. I valori che ci guidano nella politica estera Congresso di Roma, 1° aprile 2007. di Giulio Tartaglia* Anche il recente dibattito parlamentare e le votazioni sul rifananziamento delle nostre missioni militari all'estero nelle aree di crisi e in particolare in Afghanistan, dove è in corso una ripresa della campagna di primavera del terrorismo talebano, dimostrano quanto proprio la politica estera sia il terreno fondamentale sul quale ci si deve confrontare e sul quale dobbiamo compiere consequenzialmente tutte le nostre scelte. Nessuno, peraltro, può negare che l'anteporre a qualsiasi altro discorso le scelte di politica estera appartenga storicamente alla tradizione repubblicana e bene ha fatto il partito a decidere in Senato di astenersi sulla mozione del governo -pur avendo votato alla Camera a favore - per sottolineare come le ambiguità del governo Prodi in relazione al rapimento e al rilascio dell'inviato di "Repubblica" avessero sostanzialmente modificato la linea di politica estera dell'Italia cedendo ai quotidiani ricatti dell'estrema sinistra. E quanto sia, di fatto, pericolosamente mutata la politica estera italiana, lo ha dimostrato la lettera di un numero consistente di ambasciatori di paesi alleati che hanno sentito il bisogno di scrivere al governo per invitarlo a non modificare gli impegni dell'Italia. Una lettera che ha irritato il ministro degli esteri e il presidente del Consiglio, ma che era e rimane la palese dimostrazione dell'inaffidabilità internazionale di questo governo, proprio sul terreno della politica estera. Su questo terreno non possono esserci ambiguità e non possono essercene soprattutto per i repubblicani. Nel momento in cui il mondo occidentale è sottoposto ad un violento attacco, criminale ed ideologico, da parte dell'estremismo terroristico di matrice islamica, cedere o tentennare o perdersi nelle ambiguità pacifiste significherebbe non solo condannarsi alla perdita della propria identità, ma mettere in pericolo tutto il mondo occidentale, le sue conquiste e i suoi valori. L'occidente è identificato con il trionfo del capitalismo e l'odio nei suoi confronti accomuna pericolosamente il terrorismo jiadistico, che vorrebbe farci ripiombare nel più oscuro medioevo, con i reduci inconsolabili del comunismo che dopo la inesorabile sconfitta inflitta loro dalla storia, sperano di abbattere l'odiato capitalismo cavalcando le crociate dei cortei pacifisti. Da parte nostra non possiamo che ancorarci senza ambiguità nella difesa dell'occidente e dei suoi valori, che sono valori di tolleranza, di laicità e in questo senso anche cristiani (ed io aggiungerei greco-romani), di democrazia. L'Occidente è il mondo nel quale l'individuo è sovrano di se stesso, dove il pensiero è libero, dove la vita si adatta alle esigenze, come dicono gli inglesi, "tailor-made", di sartoria, alle possibilità e opportunità del cittadino. Dove insomma ognuno ha il diritto di gestire la propria vita come meglio crede. Questi valori non possono essere che valori universali, e a chi sostiene che la democrazia non si esporta possiamo rispondere di guardare alla Cina e all'India, due grandi potenze economiche di dimensioni continentali destinate a cambiare gli scenari di geopolitica del mondo e i cui popoli anelano ad uscire dall'autoritarismo e dal feudalesimo nel quale erano stati condannati per conquistarsi condizioni di vita materiali e morali e diritti civili e di democrazia pari a quelli di cui godono i popoli dell'occidente. E' quindi, senza indulgenze, che dobbiamo guardare al terrorismo islamico, ispirato ad una teocrazia totalitaria che ricerca la costrizione dell'individuo nella sharia'a. Qualche anno fa, mentre ero ancora al liceo, nella classe di storia c'era un mappa appesa al muro, abbastanza grande, e molto particolare. Particolare perché era una mappa del vecchio mondo, circolare, con epicentro Nicosia, la capitale di Cipro. Mi ricordo che man mano che andavamo avanti nella storia, il professore saliva in piedi sul tavolo, e con un ombrello che faceva da pendolo verticale su Cipro, lo faceva oscillare tra oriente e occidente, a voler dimostrare che la storia è perennemente storia di conflitto tra oriente e occidente. Il conflitto tra oriente e occidente esiste da sempre, esiste dalla guerra di Troia e dal tempo delle crociate ed ha attraversato i secoli sino alla guerra fredda tra occidente e mondo sovietico, per arrivare ad oggi ed al conflitto tra occidente ed estremismo islamico. Certo non dobbiamo dimenticare che il mondo islamico pur così refrattario, nel suo complesso, alla modernità è scosso da scontri violenti al suo interno. In Iraq l'elemento principale non è la resistenza terroristica alle truppe anglo-americane, considerate occupanti, ma la vera e propria guerra civile tra sunniti e shiiti. Come una guerra civile attraversa e scuote il Libano, e divide le varie fazioni nel mondo palestinese a scapito dei reali interessi di quelle popolazioni che desidererebbero solamente una convivenza pacifica e che sono indotte ad attribuire all'occidente in generale e agli Stati Uniti in particolare responsabilità che sono tutte di classi dirigenti politico - religiose mosse da fanatismo e desiderose di mantenere le loro popolazioni nell'oscurantismo in nome di una guerra santa, repertorio bellico e ideologico degno del medio evo. In questo quadro, l'Italia deve mantenere un forte ancoraggio all'occidente, senza ambiguità. Non può che essere vicina agli Stati Uniti, come ad Israele, e deve contribuire alla crescita di un'Europa forte nella sua alleanza con gli Stati Uniti, capace di assimilare ai valori dell'occidente paesi provenienti dalla ormai defunta cortina di ferro. La Spagna franchista era in coda alle classifiche economiche e sociali. In ventuno anni di ritorno alla democrazia e di Unione Europea è stata capace di conquistare una prodigiosa crescita economica e una stabilizzazione delle sue istituzioni. La Polonia ambisce a emulare lo sviluppo della Spagna. In questa ottica non possiamo essere contrari all'ingresso nell'Unione Europea della Turchia, un paese di confine, europeo geograficamente, ma di popolazione mussulmana. La Turchia deve rappresentare una sfida alla nostra capacità di assimilazione. Se nella Turchia mussulmana, grazie alla politica di integrazione dell'Europa, prevarranno i valori della democrazia, della tolleranza, del laicismo, ovvero i valori dell'occidente, avremo vinto una decisiva battaglia contro l'integralismo islamico e avremo messo le premesse per un a secolarizzazione dell'islam. Questo deve essere il nostro impegno nella collettività dei paesi occidentali, per dare concrete speranze di crescita civile agli oppressi nel mondo, in alternativa ai velleitarismi pacifisti e terzomondisti e agli ideologismi di una sinistra arcaica e senza storia. Non bisogna cedere alla paura, ma combattere per la libertà. *Fgr Gli spazi che l'Edera dovrà recuperare Congresso di Roma, 1° aprile 2007. di Paolo Arsena Cari amici, sono Paolo Arsena, uno dei promotori del Forum per l'Unità dei Repubblicani, l'associazione nata con l'intento di riavvicinare le varie componenti della realtà repubblicana, e sono qui anche a portare il saluto di quei repubblicani della diaspora che hanno aderito alla nostra associazione. E' da tempo che molti di noi hanno sentito la necessità di ritrovarci tutti assieme. E a fronte delle divisioni e delle dispersioni che hanno annichilito tutte le componenti del nostro filone, ho ritenuto necessario insieme a molti altri amici repubblicani, di fare qualcosa di concreto per recuperare, su un terreno politico, una diaspora che rischia di togliere alla nostra tradizione comune le condizioni per rinascere più forte e incisiva. Per questo il 30 settembre scorso è nato appunto il Forum per l'Unità dei Repubblicani, associazione che ha tessuto una grande rete trasversale di contatti tra militanti, simpatizzanti, quadri e dirigenti repubblicani, capace di abbattere il muro delle reciproche diffidenze, di tracciare percorsi di convergenza, di porre all'ordine del giorno, in tutte le componenti, la questione unitaria. E attraverso il forum, svariati repubblicani di tutte le componenti, almeno a livello di base hanno ricominciato a parlarsi e a misurarsi su progettualità comuni. Bipolarismo Ebbene, amici, una cosa è ormai a tutti chiara: il nostro problema, che è poi il problema della politica italiana e del Paese in generale, è il bipolarismo. Uno schema che produce una democrazia costrittiva, che obbliga le forze moderate ad una coabitazione forzata con quelle radicali e che ha prodotto la spaccatura delle stesse forze moderate. E' assurdo che in una coalizione Diliberto e Mastella governino insieme, come è assurdo che i repubblicani si ritrovino alleati della Mussolini. Io voglio segnalare che ieri Berlusconi, prima di venire qui, è stato poco prima al convegno programmatico di Alternativa Sociale. Ed è stato acclamato come "fürer"! Uno schema dunque, quello bipolare, che può aver garantito alternanza tra i poli e un tasso maggiore di stabilità, ma senza governabilità, senza qualità di governo. E che cos'è una stabilità senza governabilità? E' un'agonia, è la perpetuazione di un disagio cronico, che si trascina senza soluzione di continuità. Il bipolarismo quindi ha reso le coalizioni ostaggio delle forze estreme. E ha spaccato le forze moderate, frantumando tra esse anche il nostro partito, in modo così cinico e crudele, che le diverse sensibilità che in altre situazioni sono la normale espressione della dialettica interna di uno stesso partito, si sono ritrovate su fronti opposti, ad acuire sterilmente avversità e partigianerie. Non solo, ma la crisi dei partiti tradizionali che l'assetto bipolare ha provocato, ha traslato la politica dal piano dei partiti a quello del mero leaderismo. E' colpa di questo bipolarismo e di questo personalismo esasperato se da oltre un decennio la politica italiana è rimasta appiattita solo sul binomio Prodi-Berlusconi. La gente è stufa di questi due, è stufa di rimbalzare tra due settantenni che non possono rappresentare il progresso e il futuro di questo Paese! Per anni, abbiamo vissuto in un clima di caccia alle streghe nei confronti di chi sosteneva l'inadeguatezza di questo schema rigido che obbliga a scegliere: o di qua o di là. Nella coscienza dei cittadini persisteva un attaccamento irrazionale al sistema dualistico, che rendeva impossibile operare fuori dal coro bipolare senza finire "nel girone degli untori". Ebbene, con l'incidente di governo del mese scorso, che ne ha messo in luce l'intrinseca debolezza (politica prima che aritmetica) ha convinto molti a rimettere in discussione la rigidezza dell'assetto bipolare, e a interessarsi finalmente a soluzioni alternative. Si apre dunque uno spazio per il PRI e per tutti i repubblicani in generale. E questo spazio coincide con una grande opportunità di rinascita. Perché a partire da questo congresso possiamo cominciare a dare vita ad un polo laico e liberaldemocratico autonomo che concorra alla riorganizzazione del quadro politico in senso multipolare. Esistono grandi possibilità di manovra al centro: liberalsocialisti, radicali, laici, liberali, repubblicani. Io credo che oggi vada riconosciuta la lungimiranza di chi, nel Partito Repubblicano, ha da tempo sostenuto la tesi della Terza Via. Mi riferisco a Valbonesi, mi riferisco a Savoldi, mi riferisco a tutti gli amici di Riscossa. Bisogna però che il Partito Repubblicano la sappia incarnare nel modo giusto, cogliendo a pieno le possibilità di riscatto che offre, perché questa strategia può agevolare notevolmente il processo di riunificazione della diaspora a cui molti cominciano a guardare. Ma questo è possibile solo chiedendosi "perché gli altri repubblicani se ne sono andati" e "come si fa a recuperarli". E su questo, amici, consentitemi di offrirvi una risposta, che ho maturato nel corso della mia militanza coi repubblicani della sinistra, e durante il continuo dialogo con gli amici di tutte le componenti, dai Repubblicani Europei, alla Sinistra Repubblicana Ds, ai Repubblicani Democratici della Campania. Una risposta che ho veicolato anche attraverso due recenti interventi sulla "Voce Repubblicana", di cui ringrazio la redazione del giornale e il segretario Nucara. Noi siamo tutti figli del PRI, a cui siamo legati da un sentimento carnale, come quello che si può provare per il proprio padre e per la propria madre. Ma al di là di chi le scelte le ha compiute prima, in altri contesti politici e temporali, la collocazione del partito nel centrodestra, e il suo legame a doppio filo con Berlusconi, hanno segnato un punto di rottura, di non ritorno. Hanno tradito la coscienza democratica di molti, che hanno preferito rinnegare la casa storica per tenere fede ai propri ideali più profondi. E badate bene, qui non si tratta di discutere se questa sinistra sia migliore o peggiore della destra. Perché in questo scenario i repubblicani non stanno bene con nessuno dei due. Si tratta però anzitutto di dire che doveva esserci modo e modo per stare a sinistra e modo e modo per stare a destra. E sul "modo", state tranquilli che hanno sbagliato tutti. Anche la Sbarbati ha sbagliato. E ve lo dice uno che ha fatto la guerra nel MRE, per questo. Ma alla luce dei fatti, è chiaro che rimanere a sinistra in posizione critica, indipendente, severa, avrebbe consentito al partito di mantenere il proprio carattere e le proprie prerogative, e di non cedere alla trappola scismatica del bipolarismo. Senza tradire la propria storia. Perché coi fascisti, coi leghisti, e con chi piega la democrazia ai propri fini personali, il movimento repubblicano non avrebbe mai dovuto avere a che fare. Segnale chiaro Ora, posto che le scelte si sono compiute, che ognuno ha fatto le proprie scelte, e che ognuno ha trovato ragioni per motivarle, se vogliamo darci la possibilità di tornare uniti, dobbiamo rivolgere alla diaspora repubblicana un segnale chiaro e inequivocabile: si esce dal centrodestra, si dichiara l'uscita, e si punta a rilanciare un nuovo progetto fuori dai poli. Senza questo passaggio chiaro, che deve uscire tutto intero da questo congresso, non si convincono i tanti amici che a sinistra stanno soffrendo la prospettiva del Partito Democratico. E vi assicuro che ci sono tantissimi repubblicani, anche nei Repubblicani Europei, che stanno solo aspettando un segnale concreto in questo senso, dal Pri. Occorre coraggio. Ma si può osare, sapendo che non c'è niente da perdere e solo da guadagnare: alle prossime europee, col sistema proporzionale puro, si va a prendere quel che si semina e quel che si ha. E se saremo capaci di seminare, avremo molto più dei numeri odierni. In Italia la cultura liberaldemocratica è sempre stata minoritaria: sempre satellite di altri partiti, sempre divisa, sempre a beneficio di contenitori più grandi e mai di se stessa. Una cultura elitaria incapace di estendersi alle masse, e di vivere di luce propria. Ebbene, collocare per una volta questo filone in posizione asimbiotica, in un momento di grandi confusioni ideali e identitarie, può essere il modo migliore per valorizzarlo. Ecco che allora un Partito Repubblicano rigenerato e capace di aprire una fase in tutto diversa rispetto al recente passato, può oggi ritagliarsi uno spazio importante. Che passa per la promozione di una proposta politica distinta, di chiara matrice laica, democratica e liberale che il Paese chiede a gran voce, ma che né la sinistra nel suo insieme, né tantomeno la destra, sono state finora in grado di incarnare coerentemente. Un Pri capace di ritrovare le credenziali del passato, è l'unico partito che può ancora vantare questa potenzialità: per la credibilità maturata storicamente e per vocazione. E' importante dunque posizionarsi per crescere. E chi dice che bisogna semplificare la politica e abbandonare le identità non può riferirsi al Pri: si possono sciogliere i tanti partitini improvvisati e spuntati come funghi negli ultimi anni. Ma una tradizione secolare non può essere definita inutile e superata. Deve piuttosto assumersi la responsabilità di recuperare i cocci in cui si è frammentata, e fare la propria parte per riassorbire le proliferazioni prodotte. Per questo il recupero della diaspora è un imperativo morale, oltre che vitale. Amici, mi auguro davvero che questo Congresso, che è stato un bel Congresso, sappia chiudere un presente infelice per tutti, e possa riaprire il nostro futuro. |