45° Congresso Pri Unità nella dialettica Quell'Edera da consegnare alle nuove leve Congresso del Pri, Roma, 31 marzo 2007. di Mario Di Bartolomei Cari amici, cercherò di compensare un poco il tempo occupato dal - legittimamente - candidato segretario alla segreteria del partito: l'amico Aparo. Il mio non sarà un lungo intervento, non sarà un intervento mirato a dare una alternativa alla politica del partito. Sarà una testimonianza, da quando, negli ultimi tempi, mi sono consentito un periodo di riflessione e non ho fatto molti interventi durante le vicende del partito. E allora vorrei dire questo: il congresso si deve concludere con lo scioglimento di alcuni nodi. Nodi che sono di indirizzo, di programma, di unità. Perciò vorrei pregare gli amici di non introdurre argomenti e atteggiamenti inconciliabili in questo dibattito. Il partito ha bisogno, oggi come non mai, della sua unità, perché il partito ha attraversato una lunga crisi di orientamento. Prima i lunghi anni della collaborazione del centrosinistra in cui abbiamo rischiato di scomparire, perché qualcuno voleva assimilarci e concentrarci in altre esperienze politiche, in altri valori, in altre storie. E noi abbiamo una grande storia e quindi non possiamo consentire a nessuno di farci preda politica. E infatti non lo abbiamo consentito. Non abbiamo consentito che ci intruppassero nelle manovre per la "cosa due", la "cosa tre", non abbiamo consentito di confondere le grandi motivazioni ideali e politiche della scuola risorgimentale di cui siamo i legittimi eredi, non abbiamo consentito a nessuno, non abbiamo consentito a chi allora ci minacciava, a nessuno, di toglierci la nostra autonomia di giudizio e la nostra libertà operativa. In questo paese in cui la nostra storia ha tanto operato e in cui le forze repubblicane hanno rappresentato - se pur sempre in minoranza - un punto di riferimento sicuro per chiunque si sentisse di battersi per la libertà e per la democrazia. Bene, non consentimmo. Uscimmo dal centrosinistra. Ed abbiamo intrapreso un'altra esperienza nel centrodesta. Un'altra esperienza che io giudico egualmente, lasciatemi dire, lasciatemi essere fino in fondo onesto e coerente con me stesso e con quello che penso, considero egualmente disastrosa di quella che abbiamo attraversato con il centrosinistra. Il partito ha attraversato ancora una volta una grande crisi, perché ci siamo trovati ancora una volta, nell'opinione pubblica, identificabili, come assimilati, a forze politiche che sono in antitesi con tutto quello o quasi tutto quello che noi abbiamo rappresentato nella storia, un partito che si trovava a dover convivere con residui di infauste esperienze dell'Italia nel ventennio, un partito che si è trovato a dover convivere con imbarazzanti circostanze, tranne in alcune occasioni. Io ricordo Giorgio, la sfida di Giorgio di non presentarsi alla Camera quando avevano invitato Papa Wojtyla. E ricordo tutta l'azione di Del Pennino nel sostegno di leggi che rivendicassero l'autonomia dello Stato nei confronti della chiesa. Ebbene una convivenza, dicevo, in cui noi abbiamo dovuto subire politiche che non ci sono confacenti, politiche che non hanno certo giovato né allo stato d'animo dei militanti repubblicani e neppure a qualificare la nostra presenza di partito democratico, laico, risorgimentale nella storia dell'Italia. Ecco amici, dunque, noi abbiamo bisogno che questo congresso ci metta in condizioni di uscire con le nostre "idee chiare", come avremmo detto una volta. Le nostre idee chiare, la nostra unità salda, sia pure nella dialettica. Non abbiamo bisogno di atteggiamenti che introducano veleni in un dibattito che deve risolversi in questo congresso. Noi dobbiamo chiedere alla saggezza dell'amico Nucara - comprovata dal suo spirito di servizio, dal suo attaccamento al partito - di fare, per la sua parte, quello che è necessario perchè il partito ritrovi la sua compattezza. Dobbiamo lasciare all'alta coscienza politica di Giorgio La Malfa di dare, del suo e da par suo, il contributo decisivo a questo ricompattamento. Non è ammissibile, non è ammissibile per chi, per tanti anni, è vissuto in questo partito, mirando ad uno sforzo di orientamento deciso, chiaro e compatto. Non è ammissibile per i giovani che stanno arrivando nel partito - e anche di questo diamo merito all'amico Nucara - e speriamo che questi giovani si facciano vivi in questo Congresso, che non vengano a chiedere il 25% dei posti in Consiglio Nazionale cosi come hanno fatto in direzione. Questi posti, amici, si conquistano sul campo, si conquistano lavorando, si conquistano come un'altra generazione, quella alla quale io appartengo, conquistò, insieme e al seguito di Ugo La Malfa, la presenza nel partito di una nuova generazione, di una nuova classe politica. Insomma, si conquistano qui, e nel lavoro sul terreno, e voi saprete conquistarlo. Anche se conosco pochi di voi, sono sicuro che saprete conquistarlo, da quello che ho letto sulla "Voce Repubblicana", dai vostri interventi, dal vostro lavoro, della vostra partecipazione al dibattito sui temi della politica repubblicana. Sono sicuro che questi posti saprete conquistarli. E non riceverli e non doverli a nessuno. Ebbene amici, ecco lo sforzo che questo congresso deve fare, e del resto è il dovere di questo congresso sciogliere i nodi che potrebbero impedire al partito una ripartenza forte, sicura nei temi e negli stati d'animo e quindi nell'unità operativa del partito. Amici, noi proveniamo, come stavo dicendo, da due lunghe esperienze, troppo lunghe esperienze, cinque anni, poi altri cinque, in cui abbiamo dovuto subire quasi sempre l'iniziativa di altri. In cui, anche quando avevamo una nostra presenza qualificata, con proposte di legge, con proposte politiche, tuttavia venivamo sempre identificati con la prevalente presenza politica parlamentare nel paese. Cioè quella di altre forze politiche che ci sono estranee e spesso, o quasi sempre, avverse. Avverse perché questo partito è il partito che è la grande spina del fianco di tutti gli altri, e che deve restare ancora il partito della ragione, il partito dell'altra sinistra democratica, il partito, come diceva Spadolini, con il tronco al centro e i rami rivolti a sinistra, ma anche il partito che si prepara o deve prepararsi ad un altro balzo in avanti, sulla base di una delineazione sicura, di una azione sicura e di una presenza impegnativa per noi e per tutti gli altri che dovranno reagire, sulla base della nostra presenza e della nostra iniziativa. Ebbene, per questo, abbiamo bisogno dell'unità. Io vorrei dire che nel dibattito pre – congressuale, nella relazione prudente del segretario, che ha voluto - a mio avviso giustamente - investire un congresso del compito di delineare una linea futura, ho ritrovato appunto questo sicuro orientamento. Noi abbiamo attraversato in questi ultimi due anni, credo, una fase di tensione verso una ridefinizione o ricollocamento del partito. E' stato citato in alcuni documenti, è stata citata la mozione di un congresso votata all'unanimità, è stato citato un articolo del segretario molto impegnativo e molto rivelatore di questa tensione e di questa necessità. Quella di rivedere la presenza del partito in uno schieramento politico; sono stati citati, insomma, vari documenti anche espressi dalla minoranza di Riscossa repubblicana. Tuttavia non si sono risolte tutte queste tensioni, non si sono ancora risolte in un sicuro orientamento per i prossimi immediati tempi. Io credo che questo orientamento vada espresso nel senso appunto di una pausa di riflessione, in un tentativo di riassorbimento delle cosiddetta "diaspora repubblicana", in un tentativo di un rinverdimento della identità repubblicana con lo studio e l'approfondimento del nostro atteggiamento nei confronti dei grandi problemi internazionali e interni, così come della missione storica del partito nei prossimi tempi. Credo che su questo dobbiamo verificarci. Ho letto e modestamente ho anche contribuito ad un documento della minoranza di Riscossa repubblicana su questi problemi e sull'esame della situazione, sulla necessità del prossimo futuro, nella speranza che si abbia tempo, e che le elezioni nazionali politiche non siano a breve scadenza. Noi dobbiamo consentirci questa pausa, pausa di riflessione e di approfondimento e quindi, perciò, è necessario che da questo congresso si esca uniti, compatti, protesi per il futuro. Il Pri in Lombardia/L'intervento del segretario regionale Una forza in grado di mobilitarsi Congresso del Pri, Roma, 31 marzo 2007. di Carlo Visco Gilardi Desidero cominciare il mio intervento da un fatto locale. Dopo 14 anni sono tornato a ricoprire il ruolo di Segretario Regionale della Lombardia e devo dire che ho ritrovato un partito piccolo ma tutt'altro che prono, capace di mobilitarsi, di impegnare le proprie forze per eleggere prima e sostenere poi consiglieri comunali, come l'amico De Angelis, che ha riportato il PRI in Consiglio Comunale a Milano, e che ha saputo catalizzare il lavoro di molti repubblicani e di molti ex repubblicani che hanno ritrovato la voglia e le motivazioni per tornare ad occuparsi di politica e dei temi dell'amministrazione locale. Ma la novità più bella ed importante è stato trovare molti giovani, che già sono pienamente inseriti nel partito e che stanno dando un grande contributo con idee nuove sia sul piano politico e programmatico che sul piano della comunicazione. Detto questo, va subito affrontato il tema della collocazione del partito. Questo congresso arriva in un momento di passaggio in cui molto probabilmente si sta consumando la crisi di questo bipolarismo atipico che ci condiziona da 13 anni. Bipolarismo che nasce ed è tenuto assieme dalla figura di Berlusconi, che tiene insieme la destra e la sinistra, e che per il centrosinistra rappresenta l'unico motivo di coagulo. Su Berlusconi si possono dire tante cose, ma gli va ascritto il merito di aver ancorato l'Italia allo schieramento atlantico ed occidentale, che molto probabilmente senza di lui sarebbe stato messo in discussione, come stanno facendo alcuni esponenti del centrosinistra. Nello stesso modo gli si deve riconoscere il merito di aver facilitato il difficile percorso che ha portato il partito di Fini nell'area democratica e parlamentare. È probabile che, anche per ragioni anagrafiche, Berlusconi non sia più il leader del centrodestra per la prossima legislatura, se questa compirà per intero il suo cammino ed allora già, fin da adesso, sta iniziando il difficile riposizionamento delle forze politiche, per quella scomposizione e ricomposizione dei poli che tutti auspichiamo. Le vicende di questi giorni indicano con chiarezza che questo sarà il tema dominante dei prossimi mesi. Che cosa deve fare il PRI. Innanzitutto deve fare una battaglia parlamentare e nell'opinione pubblica, affinché il sistema elettorale non venga determinato da quello che è alla base della richiesta dei referendari, ovvero la trasformazione in un sistema bipartitico, che sarebbe la fine per tutti quei partiti che, come il PRI, hanno l'orgoglio e la volontà di rappresentare un pensiero autonomo e non omologabile. Personalmente credo che il modello migliore sia quello tedesco, ma, ripeto, va innanzitutto sconfitto l'obiettivo del bipartitismo. In secondo luogo non possiamo deflettere sui nostri principi ed ideali, quali le nostra idee sulla politica estera e la politica economica. Io sono stato tra coloro che hanno sofferto la svolta di Bari, che ho accettato solo per le ragioni supreme delle scelte di politica estera e di politica economica. Mi domando, se ci fossimo trovati alleati con la sinistra estremista che applaude a Nassiriya e brucia le bandiere di Israele, con che coraggio ci saremmo trovati in questo congresso, e avremmo avuto il saluto del rappresentante della comunità ebraica, accolto con grande entusiasmo da tutti noi. Quindi fedeltà alle nostre idee, capacità di allearci con altre forze e non solo con i liberali, per i quali plaudo il patto federativo annunciato dal segretario. Capacità di rappresentare il mondo liberaldemocratico e laico, che però non può essere l'unica condizione per incidere presso l'elettorato. Dobbiamo tornare ad essere il Partito che Ugo La Malfa seppe presentare all'Italia degli anni '60. Il Partito della modernizzazione del Paese su vecchie e nuove prospettive, la riforma degli enti pubblici che continuano ad agire secondo schemi superati e lontani dagli interessi dei cittadini, la realizzazione delle grandi infrastrutture, come quelle che interessano il corridoio 5 (vedi TAV) ed il corridoio 1. La modernizzazione del Paese, che non può pensare, nell'Europa dei 27, di vantare solo il credito di essere uno dei 6 paesi fondatori. Se non ci mettiamo al passo, rischiamo di essere ricacciati con i piedi nel Mediterraneo come temeva Ugo La Malfa. E ritorno per un attimo alla politica estera; un Paese non può restare a lungo nella comunità occidentale se tratta con i terroristi e delega ad un privato le trattative stesse. Sullo stesso tema è grande il mio stupore di fronte all'affermazione dell'on. Fassino, secondo il quale si sarebbe dovuto trattare con le Brigate Rosse, per la liberazione di Moro. Ma proprio su questi punti deve distinguersi dal vecchio PCI. Concludo infine con due osservazioni sulla relazione del segretario Francesco Nucara. La prima, pur comprendendo bene il contesto dell'affermazione, credo che non si possa disgiungere il contributo degli alleati da quello dei partigiani, nel conseguimento della democrazia in Italia, ed occorre ricordare il sacrificio dei partigiani delle brigate Mazzini e di G.L., che anche allora resistettero non solo al nemico oppressore, ma anche ai tentativi di omologazione, soprattutto da parte del PCI. L'altro appunto è sulla riforma statutaria per consentire l'autonomia delle Consociazioni Provinciali in materia di elezioni amministrative. Non vorrei che si usasse uno strumento statutario, quando forse basta la volontà politica. Temo che una modifica dello statuto in questo senso rischi di trasformare il PRI in un partito federale, difficile da gestire e con scelte politiche a macchia di leopardo. Interpreti dei valori laici L'esperienza dell'Edera a Milano Per una società libera e responsabile Congresso del Pri, Roma, 31 marzo 2007. di Franco De Angelis* Un congresso nazionale è un momento importante per discutere del presente, e soprattutto del futuro, di un partito. Prima di tutto, credo, dovremmo spendere qualche minuto sulla nostra storia, che può offrirci numerosi spunti di riflessione. Diciamolo con franchezza. Il PRI non è un partito come gli altri. È il più antico partito politico italiano, costituito ufficialmente nel 1895, e l'unico ad aver sempre mantenuto lo stesso nome, lo stesso simbolo, e gli stessi principi ispiratori derivati dal pensiero di Mazzini e di Cattaneo. Un caso unico di coerenza, in un panorama in cui tutti i partiti cambiano casacca, rinnegano le proprie origini e tentano di impadronirsi delle ispirazioni altrui. Non siamo numerosi, è vero, ma in realtà non lo siamo mai stati. Non siamo mai stati un partito di massa, anche perché non siamo mai stati interessati al potere in quanto tale, e non abbiamo mai accettato compromessi tali da snaturare la nostra identità. La nostra missione è sempre stata dare voce alla parte laica e progressista della società civile, con una particolare attenzione alle dinamiche economiche, all'equità sociale e ai grandi temi della politica internazionale. Abbiamo sempre incarnato il ruolo di coscienza critica del Paese, avendo anche il coraggio di sostenere scelte difficili o impopolari, quando siamo stati convinti che l'interesse generale lo richiedesse. Pensiamo alla nota aggiuntiva di La Malfa, assolutamente in controtendenza rispetto alle idee dominanti allora, o all'importante lavoro svolto da Visentini sul piano fiscale. Certo, il PRI ha sempre dedicato un'attenzione particolare ai ceti produttivi, ma non si è mai appiattito in modo miope sulla rappresentanza di un ceto o di una fascia sociale. Ha sempre messo in primo piano le esigenze generali del Paese, sforzandosi di osservare i fenomeni sociali, politici ed economici con lungimiranza. La lucidità della nota aggiuntiva di Ugo La Malfa – nella quale il leader repubblicano chiedeva maggiori investimenti in infrastrutture, formazione e ricerca in un'epoca in cui l'attenzione era concentrata solo sui consumi – resta per noi motivo di orgoglio. Una scelta di campo Fin dall'inizio, abbiamo compiuto una scelta di campo a favore delle democrazie liberali: una scelta che abbiamo mantenuto attraverso due guerre mondiali e per tutto il periodo della guerra fredda, sostenendo con decisione la nascita dell'Europa comunitaria e l'impegno internazionale dell'Italia. Ricordiamo l'impegno determinante di Sforza per la Comunità Europea e per l'adesione dell'Italia alla NATO. Ricordiamo la missione in Libano del 1982, sotto la responsabilità del ministro della Difesa Spadolini. La filosofia dell'equidistanza non ci appartiene: siamo abituati a schierarci, a dichiarare con chiarezza da che parte stanno i valori in cui crediamo. Allo stesso modo, non ci appartiene la cultura della subalternità. Abbiamo sempre dialogato con i grandi partiti di massa, abbiamo stretto alleanze e condiviso obiettivi con altre forze politiche. Ma siamo anche sempre stati pronti a ritirarci dalle coalizioni, quando abbiamo avuto il sospetto che quegli obiettivi avessero cessato di essere comuni. Non abbiamo mai accettato di mettere sullo stesso piano le idee e i voti, non abbiamo mai ceduto alla tentazione della popolarità o della visibilità fine a se stessa. E proprio per questo motivo, credo, siamo sempre stati un punto di riferimento per le coscienze migliori del Paese, assumendoci la rappresentanza di un elettorato laico e progressista che ha sempre guardato con interesse al PRI. L'Europa L'Europa è sempre stata un orizzonte di riferimento fondamentale per i repubblicani. Già lo era nel pensiero mazziniano, e oggi a maggior ragione. Come giustamente afferma Annemie Neyts, presidente del partito ELDR, l'Europa è il più bel cantiere politico della storia dell'umanità, l'unico esempio di unione liberamente scelta da 27 nazioni sulla base di valori fondanti forti: libertà, democrazia, norme di diritto, rispetto dei diritti umani, mercato economico e solidarietà. Sono valori in cui ci riconosciamo pienamente, e che vorremmo vedere attuati con sempre maggior coerenza in Europa, in Italia e in ogni parte del mondo. Oggi è molto di moda parlare (anche impropriamente) di liberalizzazioni, definirsi liberali. Tanto che il senso stesso del termine tende a svuotarsi di significato. Il concetto di liberalismo sembra essere entrato a far parte della vulgata politically correct corrente: tutti sono liberali (a partire dai pentiti del marxismo). Come tutti sono pacifisti, garantisti, ambientalisti, rispettosi delle minoranze, ecc. Insomma, anche il concetto di liberalismo sembra avviarsi a diventare un'etichetta passepartout. Cosa che certamente non può fare piacere a chi, invece, si sente autenticamente liberale. Liberalismo non significa automaticamente deregulation: significa, di base, rifiutare l'idea che lo stato debba intervenire sul mercato come attore economico esercitando un ruolo di imprenditore e modificando a suo piacimento il gioco della libera concorrenza. Ciò detto, resta evidente che il liberalismo non punta all'estinzione dello stato. Anzi, intende valorizzarlo: da un lato come garante delle regole, e dall'altro come fornitore di tutti quei servizi che, per loro natura, non sono privatizzabili. Del resto è ovvio che nel contesto della dialettica politica le posizioni si definiscono anche in rapporto alle condizioni storiche. Trent'anni fa parlare di liberalismo voleva dire opporsi allo statalismo dilagante. Oggi, vuol dire richiamare gli organi dello stato al loro ruolo di garanti super partes. Questa è la visione del liberalismo che l'ELDR auspica per l'Europa: le parole chiave sono uguaglianza di opportunità, lotta alle discriminazioni, economia di mercato nel rispetto di precise regole sociali e ambientali, priorità al sistema educativo, libera circolazione dei lavoratori. Con un grande obiettivo di fondo: il raggiungimento di migliori livelli di benessere e di libertà per tutti. Il ruolo del PRI Le brevi note esposte fino ad ora ci conducono a interrogarci, inevitabilmente, sul ruolo presente e futuro del PRI. Molti di noi avvertono i limiti dell'attuale bipolarismo all'italiana. Di per sé, il bipolarismo è un fenomeno che investe molte democrazie: per limitarci alle più mature e consolidate, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma in certa misura anche la Francia. Sarebbe superficiale e limitativo definirlo come una tendenza in assoluto negativa. Il vero difetto del bipolarismo italiano consiste nel non essere davvero basato su visioni contrapposte del Paese (tutti, a parole, sono democratici, liberisti, progressisti), ma su personalismi poco pertinenti e poco rilevanti. Che si traducono nella prassi concreta, per effetto dei veti incrociati, in comportamenti incerti o discutibili. Da questo, soprattutto, immagino, deriva il fastidio di molti amici che vorrebbero far saltare questa logica e riportare il dibattito politico sulle cose che contano realmente. È un'esigenza legittima e condivisibile. D'altra parte, in questo momento, sarebbe oggettivamente difficile, per un partito come il nostro, immaginare di poter creare una reale alternativa a questa situazione senza creare l'impressione di essersi ritirati sull'Aventino. Abbiamo visto che, nel corso della sua storia, il PRI ha sempre svolto il suo ruolo dialogando e confrontandosi con le altre forze politiche. E in questo modo abbiamo conseguito risultati importanti: abbiamo contribuito a modernizzare il Paese, a rendere la nostra democrazia più matura, a consolidare ed estendere molti diritti civili. Dobbiamo, evidentemente, continuare su questa strada, elaborando proposte d'alto profilo che possano essere un punto d'aggregazione per le forze politiche più vicine a noi. Non in un'ottica di subalternità, evidentemente, ma in un quadro di riconoscimento di pari dignità, se non altro a livello intellettuale e politico. Le contraddizioni e le difficoltà dei due poli sono sotto gli occhi di tutti. Le debolezze della maggioranza sono così evidenti che non vale la pena di parlarne: vediamo tutti le due anime del centrosinistra perseguire obiettivi sempre più divergenti e confusi, con preoccupanti concessioni a un'ala massimalista che impone pesantissimi dazi alle componenti riformiste dell'Unione, peraltro divise tra loro su questioni fondamentali come i diritti civili e la famiglia. Giovanni Spadolini diceva che il PRI è un albero con il tronco al centro e i rami a sinistra. Ma alludeva a una sinistra molto diversa dall'attuale. Più che alle parole, credo, dovremmo badare ai fatti. Iniziando da quelli che hanno la rilevanza obiettiva maggiore. La politica estera, il quadro delle alleanze internazionali, è ciò che definisce un paese agli occhi del mondo. Forse potremmo partire da qui per definire - o ridefinire - la nostra collocazione. Come ha ben detto il segretario Nucara, questo governo e questa maggioranza stanno danneggiando seriamente la credibilità dell'Italia sul piano internazionale. La dottrina del multilateralismo elaborata dalla Farnesina - forse più per tenere insieme la coalizione di governo che per intima convinzione - ha poco senso nella situazione attuale, non ha un reale valore costruttivo e può solo creare diffidenza nei nostri confronti da parte dei nostri alleati storici. E agli interrogativi sull'Afghanistan, enfatizzati dagli eventi degli ultimi giorni e dalle polemiche che hanno accompagnato il rilascio di Mastrogiacomo, si aggiungono in prospettiva quelli sul Libano. Il PRI ha sempre avuto una posizione chiara sul quadro politico internazionale, e non può tollerare scelte ambigue su questo punto. Possiamo discutere con i nostri alleati, naturalmente. Possiamo criticare alcune scelte dell'amministrazione Bush, possiamo non condividerne altre: è una libertà alla quale non rinunciamo e non rinunceremo. Ma non possiamo mettere gli Stati Uniti sullo stesso piano dei talebani o considerarci equidistanti tra Israele e gli hezbollah. La nostra coscienza e la nostra intelligenza si ribellano. In conclusione… Il PRI ha ancora delle chances? Abbiamo ancora modo di incidere concretamente sulla politica italiana? Io credo di sì, e sono certo che i fatti mi daranno ragione. Mi permetto di rievocare una vicenda personale: la storia di come, dopo 13 anni di assenza, il PRI è tornato a Palazzo Marino. È una vicenda per molti aspetti emblematica. A Milano, i repubblicani hanno raccolto l'esigenza, presente tra i cittadini, di portare avanti un'iniziativa politica nuova. Con l'aiuto, beninteso, di molti amici volenterosi nell'esecutivo, che hanno svolto un lavoro difficile. Abbiamo speso molte energie per verificare l'ipotesi di una federazione laica tra PRI, PLI e Riformatori Liberali. È stata un'esperienza positiva, soprattutto perché ha segnato l'avvio di una nuova stagione di lavoro politico, e anche perché ci ha permesso di verificare – attraverso il successo delle manifestazioni che avevamo promosso – che eravamo riusciti a intercettare le aspettative di una parte importante della cittadinanza. Ma all'avvicinarsi della scadenza elettorale, purtroppo, abbiamo dovuto constatare che i nostri compagni di viaggio nutrivano notevoli incertezze. Più avanzava l'ipotesi di una lista Moratti, più cresceva l'inquietudine di questi nostri amici. Alcuni dei quali, alla fine, hanno bellamente rinunciato alla loro appartenenza di partito – alla loro storia, in sostanza – pur di riuscire a infilarsi nella lista del candidato sindaco. Lista che, come ricorderete, rifiutava programmaticamente di accogliere rappresentati di partiti. A quel punto abbiamo dovuto fare a nostra volta delle scelte. L'esigenza di una nostra presenza nelle istituzioni era forte, soprattutto alla luce del lavoro svolto negli ultimi mesi. Ma una presenza per fare cosa? Non per il puro gusto di esserci, naturalmente: volevamo essere presenti per continuare a fare politica, per portare avanti il programma che avevamo messo a punto. Ci siamo confrontati, abbiamo valutato diverse possibilità. E alla fine, d'accordo con Francesco Nucara, abbiamo ritenuto che la scelta migliore fosse accogliere l'invito di Forza Italia e presentare, all'interno della lista azzurra, una candidatura come indipendente. Ricalcando, peraltro, scelte analoghe fatte a livello nazionale. Certamente, l'offerta di Forza Italia ci ha fatto piacere, se non altro perché ha dimostrato la considerazione e il rispetto che un grande partito di massa nutre per il piccolo PRI. Peraltro, è abbastanza superfluo aggiungerlo, non eravamo nelle condizioni di proporre una nostra lista con 60 candidati al Consiglio Comunale e circa 350 per le circoscrizioni. Abbiamo verificato le condizioni, dicevamo. E poi, buttando il cuore oltre l'ostacolo, forse con un po' di felice incoscienza, mi sono candidato. A parte l'ospitalità, Forza Italia non ci ha offerto alcun sostegno, né in termini organizzativi, né, soprattutto, in termini di voti. Ciò nonostante, dopo aver fatto una campagna elettorale sostenuta solo dagli sforzi e dal calore degli amici repubblicani, sono stato eletto. Cosa c'è dietro questo successo? C'è il nostro mondo laico e repubblicano. Ci sono le persone che continuano a credere nei nostri ideali, nel nostro modo di fare politica, nelle scelte che ci hanno sempre resi diversi nel panorama politico italiano. 700 voti a Milano sono molti? Sono pochi? Io credo che siano, in primo luogo, significativi e importanti. Soprattutto perché hanno permesso ai repubblicani di tornare dopo 13 anni di assenza a Palazzo Marino. Cosa significa tutto questo? Certamente il voto a nostro favore non è un voto clientelare, e neppure un voto ideologico: non lo è mai stato. Siamo premiati da un voto d'opinione: in altri termini, dalle persone che ci vedono come una forza politica in grado di interpretare i grandi valori laici e liberali: l'idea di una società in cui a prevalere siano gli individui con le loro libertà, le loro responsabilità e i loro meriti; l'idea di una società basata sul rifiuto di ogni costrizione sociale imposta dall'alto; l'idea di un paese ancorato, anche nelle scelte politiche internazionali, ai valori della propria identità occidentale. Non possiamo focalizzarci sul fatto che abbiamo poche tessere e viverlo come un problema fondamentale. Non fa parte della nostra storia. Dobbiamo piuttosto soffermarci sul fatto che esistono comunque – a dispetto dei politologi e della loro scarsa considerazione per i partiti minori – cittadini che credono nei repubblicani e che vogliono il PRI all'interno delle istituzioni. Perché la presenza del PRI rappresenta per loro una garanzia. Anche per rispetto nei confronti di questi elettori, per assicurare maggior visibilità alla nostra presenza e al nostro operato, dopo l'elezione ho scelto di staccarmi dal gruppo di Forza Italia per aderire al gruppo misto. La specificità di un partito d'opinione è la sua capacità di aggregare consenso indipendentemente dal numero degli iscritti. Perché un partito d'opinione ha un'audience rapportata alla qualità delle sue proposte politiche, e non alla quantità delle tessere che può schierare. La nostra forza sono le idee, e su questo dobbiamo continuare a lavorare. Ho appena detto che l'edera ha rappresentato molto nella storia del nostro paese, e lo ribadisco. Ma questo deve costituire per tutti noi uno stimolo, non una rendita di posizione. Le grandi figure di pensatori e statisti che stanno alle nostre spalle - Mazzini, Cattaneo, Carlo Sforza, Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini - ci rendono orgogliosi, ma ci caricano anche di una grande responsabilità. Dobbiamo continuare il lavoro che hanno iniziato, portare avanti le loro idee, mantenendoci fedeli ai nostri punti fermi pur operando in un contesto politico e sociale mutato. Non possiamo fermarci alla quotidianità, né concentrarci solo sull'amministrazione dell'esistente, per quanto possa essere un tema complesso. Proprio perché siamo gli eredi di una tradizione intellettuale forte, abbiamo il dovere di guardare un po' più in là degli altri. Possiamo farlo. Possiamo ancora essere il punto di riferimento di un'area d'opinione molto più ampia del nostro bacino d'iscritti, e un rilievo che, al di là delle percentuali elettorali, può far breccia nella politica, contribuendo a rendere migliore il Paese. *Consigliere comunale di Milano Quelle leggi sbagliate che non tutelano il cittadino Congresso del Pri, Roma, 31 marzo 2007. di Sergio Masini Care amiche , cari amici, credo che il dibattito politico e la realtà di tutti i giorno ormai lo abbiano dimostrato ampiamente. Una delle cose che manca di più al nostro Paese è una vera classe dirigente. Non una classe dirigente calata dall'alto o scelta da pochi, ma maturata e originata dal confronto continuo con i cittadini, verificata costantemente, che abbia dato prove di capacità di efficienza e di onestà. Questo purtroppo il Paese non c'è l'ha o c'è l'ha in misura molto limitata, a sinistra come a destra. Veramente possiamo dire che in questi anni si è volato basso e si continua a volare molto basso. Una cosa però l'attuale classe dirigente ha nella sua maggior parte. Una tendenza oligarchica a legittimarsi, a riprodursi, ad aiutarsi a rimanere alla guida del Paese con i risultati che noi vediamo costantemente. E allora elementi di questo atteggiamento sono la mancanza di trasparenza, la propaganda contro l'informazione corretta. Stamattina mi sono sentito dire in uno dei tanti telegiornali - che devo pur seguire anche per il lavoro che faccio nella Pubblica Amministrazione - che abbiamo risparmiato grazie alle ultime liberalizzazioni 70 milioni di euro per quanto riguarda i conti correnti. Bello. Poi mi sono fatto una piccola riflessione; ma quanti siano noi ad avere il conto corrente in Italia? 20 milioni? Caspita, abbiamo risparmiato 3 euro a testa. Questa è una politica di grandi liberalizzazioni? Non mi sembra. Mi sembra che stiamo volando molto basso. Guarda caso se si fa un bonifico si pagano 5 euro tutti in una volta. Non possiamo continuare ad accettare di essere presi in giro. Ma questo è un problema di carattere generale perché c'è stata una serie di eventi che ci hanno portato ad una caduta delle precedenti classi dirigenti o anche ad una loro messa in ombra con tutte le esperienze, anche positive, molto positive, che c'erano state in passato. E la loro sostituzione, integrazione, supplenza con una tendenza, appunto, a scegliere tutto dall'alto, da parte di poche persone. I vantaggi naturalmente ci sono, ma sono per i soliti pochi. Lo vediamo nel dibattito sulle municipalizzate che sta avvenendo molto sotto traccia, se ne parla poco, lì non si riesce a trovare l'accordo. Prendersela con i benzinai o con i tassinari è facile, ma andare a incidere sul nodo delle municipalizzate a quanto pare è molto più difficile. Questo, attenzione, non vale soltanto a sinistra, perché in tutti gli anni precedenti qualcosa si poteva pur fare, ma non è stato fatto, perché c'era sempre chi frenava. Quando si ha una macchina, si ha la possibilità di alzare anche il pedale del freno ogni tanto, di premere l'acceleratore se questo è necessario per il Paese. Ma un altro settore da dove si vede perché la cose in Italia non funzionano, è la Pubblica Amministrazione, nella quale ho il piacere, l'onore, qualche volta il dispiacere di lavorare da tanti anni. Ci sono state due leggi che hanno provocato un autentico sfascio basandosi sull'illusione di poter dare maggiore efficienza alla macchina pubblica. Sono le leggi Bassanini e Frattini, perché è stato peggiorato quello che già era stato fatto di negativo, nei riguardi di una Pubblica Amministrazione che doveva e deve essere garanzia per il cittadino come sancito dalla Costituzione. Io ho avuto la possibilità di collaborare con il centrodestra nella passata legislatura, e ho visto una classe politica che ci provava ma, proprio a causa di questi errori nel trattamento della pubblica amministrazione, li ho visti aggrediti letteralmente da un'orda di donne e uomini di malaffare, di faccendieri, di pasticcioni, di ambiziosi di corrotti, di gente che era stata rifiutata dai governi precedenti di centrosinistra o della vecchia prima Repubblica e che tornava all'attacco. E loro si sono fidati, ci sono cascati. Avevano in mano degli strumenti che facevano loro credere di poter comandare, di poter governare, ma il governare non è soltanto dare ordini, è l'esercitare una quotidiana costante vigilanza, attenzione, cura della gestione della cosa pubblica. E questa è mancata. Se ne sono andati, è rimasta però una dirigenza pubblica sempre più corrotta, inefficiente, opportunista - almeno in una buona parte. Fortunatamente non è ancora maggioritaria, ma fa sentire molto gravemente il proprio peso. Ma mi sono accorto che si può fare anche di peggio: perché è lo strumento che porta la classe politica a fare determinate scelte. E così le garanzie per i cittadini non ci sono più. Eppure la Pubblica Amministrazione è lo strumento primo attraverso il quale la politica, non la classe politica, la politica nel suo senso più alto, attua le decisioni, e le trasferisce nella vita quotidiana e, a fronte della mancanza di garanzie data da una dirigenza come quella che vi ho descritto, c'è il precariato. E' assurdo il precariato nella pubblica amministrazione, centinaia di migliaia di persone di precari, già abbiamo il precariato nella scuola. Ma il precariato negli altri settori è una negazione dell'efficienza. Credetemi, fino a quando non si ritorna ad una selezione seria, certamente trasparente, garantita, nella Pubblica Amministrazione, non ci saranno più garanzie vere per i cittadini. I pubblici dipendenti non sono dei fannulloni, perlomeno la grande maggioranza di loro non lo è. Molti di loro sono disamorati, molti di loro sono privi di fiducia, molti di loro aspettano di finire una esperienza che avevano cominciato con speranza e anche in molti casi con entusiasmo, e c'è ancora gente, nonostante questo, che, pur sapendo di non avere prospettive di carriera perché non ha l'appoggio del politico di turno o del super amministrativo di turno, o del consigliere di questo o di quello. Persone dunque che sanno che non potranno fare un solo passo avanti, ma che continuano a lavorare con dedizione e con passione. Ve lo dico io, lo vedo, dalle persone che lavorano con me, dalle persone che ho avuto il piacere e l'onore di conoscere a tutti i livelli, dall'usciere, al tecnico al funzionario, al dirigente di seconda fascia che sa che non diventerà mai dirigente generale perché non avrà fortuna, non avrà la spinta giusta. Una volta c'era un minimo di controllo, una volta i Consigli dei Ministri dicevano: promuoviamo questo che sappiamo benissimo essere una persona incapace ma, siccome siamo qui tutti quanti e ci assumiamo la responsabilità, mettiamone degli altri che valgano qualcosa, e che ci coprano le spalle e che dimostrino che non abbiamo fatto delle scelte sbagliate. Adesso il politico può scegliersi chi vuole. Chi di voi lavora nella pubblica amministrazione lo sa, e i cittadini che lavorano nel privato che hanno i contatti con la pubblica amministrazione se ne rendono conto giorno per giorno sulla loro pelle. Ma così si perdono la professionalità. E il partito deve interessarsi di questo settore nevralgico, deve cogliere la necessità di intervenire qui come in tanti altri settori, come già sta facendo, come deve fare e ancora di più. Certo questa Repubblica di veline, di faccendieri dove le spinte e gli ideali vengono strumentalizzati, dove predomina il velleitarismo da una parte e l'affarismo dall'altra, ma che cosa offre ai giovani, con quale coraggio possiamo dire loro studia, applicati, sii onesto, corretto, quando hanno sotto gli occhi ben altri esempi. Adesso finalmente si smette di fare i reality in televisione: sembra perché ci si è resi conto degli esempi schifosi, negativi che danno ai giovani, e che danno anche a noi, persone un po' più mature, che crediamo di avere sbagliato tutto nella vita. Perché forse, se ci fossimo comportati diversamente…chissà! Ma chissà che cosa? Chissà lo schifo! Chissà la porcheria di tutto questo! E non è per fare del moralismo. Non è mica detto che noi laici dobbiamo essere da meno da questo punto di vista dei cattolici. Anzi, a molti cattolici praticanti dobbiamo rimproverare l'ipocrisia del loro comportamento. E noi dobbiamo ricordarci invece che abbiamo avuto alle spalle una persona come Mazzini che parlava anche lui della famiglia, ma perché la riteneva caposaldo dello stato democratico e della libertà. Io mi ricordo di Bruno Visentini, di un suo intervento al Congresso di Firenze, molti di voi se lo ricorderanno. Purtroppo alcuni di noi non hanno poche primavere. Meno male che ci sono ancora tanti giovani. In quel congresso Bruno Visentini con il suo garbo ricordava di avere appena comprato una edizione fine, molto filologicamente corretta, dei Ragionamenti di Pietro l'Aretino, dove una madre insegnava alla figlia a fare la puttana. Bene, seguendo l'insegnamento di Bruno Visentini che ci diceva: "noi non siamo capaci di fare queste cose", noi dobbiamo invece dare degli esempi alti. Dobbiamo batterci per la ricostruzione di una classe dirigente che si confronta con i cittadini e che nasce dalla verifica della sua onesta e della sua capacità. Dobbiamo dare a tutti la speranza che sia possibile fare in modo che la politica non sia più qualcosa di cui si prova disgusto soltanto perché se ne vedono i risultati negativi. Credo che ci sia un grande spazio per noi repubblicani nel Paese. Dobbiamo partire dai cittadini per riconquistare il ruolo che abbiamo avuto con La Malfa, con Visentini, con Giovanni Spadolini. Che cosa hanno gli altri, la maggior parte degli altri? Niente, o cose di cui si vergognano! Un passato che in buona parte devono o rivisitare criticamente o mettere sotto silenzio. Noi no! Noi siamo orgogliosi del nostro passato e dobbiamo essere fiduciosi del nostro futuro. C'è ancora un grande compito che attende i repubblicani, e c'è ancora una speranza nel nostro Paese. Autonomia: un valore alle radici della nostra storia Congresso del Pri, Roma, 31 marzo 2007. di Aurelio Ciccocioppo Nucara ieri, concludendo la sua relazione, ha lanciato un appello all'unità, sostenendo in pratica che non ci sono ragioni di divisione dal momento che non ci sono diversità di vedute sui grandi problemi che investono l'Italia e il mondo. Ma la questione è che da Bari in poi il dissenso nel PRI non è stato determinato da visioni diverse sulla politica estera, o economica, o energetica o istituzionale, cioè sulle posizioni che su queste tematiche il partito ha maturato in tanti anni. Ci può essere stata e c'è perplessità, dissenso su come, in taluni casi, il PRI ha difeso le ragioni delle sue posizioni. Un caso recente è il voto sull'Afghanistan. Alcuni delegati hanno espresso il loro dissenso ed io mi associo a loro nel dire che bisognava votare a favore e che le motivazioni dell'astensione non convincono. A Bari, fu la scelta dell'alleanza di centro-destra che spaccò il partito e che negli anni successivi ha continuato a produrre perdite di pezzi di repubblicanesimo storico. Oggi, siamo di fronte ad una nuova crisi, dopo le dimissioni di Giorgio La Malfa. Io spero di cuore che questa vicenda, in questo congresso, si chiarisca sino in fondo e si ricomponga nell'interesse del partito. Ma tornando alle alleanze, non è che la scelta dei compagni di strada sia un fatto secondario. Oggi qui è stata ricordata la canzone amata da Ugo La Malfa, "Bella ciao"! Noi dovremmo stare con chi ha combattuto per la democrazia, per la repubblica. Non con quelli che hanno scoperto con molto ritardo che esiste la democrazia, senza forse comprenderla sino in fondo, tant'è vero che nei movimenti di cui sono espressione non si fanno congressi, non c'è dibattito, decide tutto il capo, nelle loro organizzazioni locali vige il regime del commissariamento. Non possiamo neanche stare con chi continua a perseguire, non si sa se sul serio o per giuoco, la secessione. Sempre a Bari, si disse che per salvare il partito, visto che con il centro-sinistra si erano definitivamente rotti i rapporti, e non per colpa del PRI, non rimaneva che schierarsi con il centro-destra. Ma si è veramente salvato il partito? Io credo che sia giunto il momento di un esame impietoso, di un consuntivo, di come siano andate le cose. Sì ci siamo ancora, grazie all'ostinazione di molti irriducibili come noi. Ci sono i giovani. Ci sono i circoli. Ma se andiamo a ben vedere, dobbiamo prendere atto che tuttora il PRI non è in grado di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento sotto il proprio simbolo e che in tante regioni, province e comuni non è in grado di presentare liste autonome o di coalizione con il proprio simbolo. In troppe realtà locali il PRI vive ormai ai margini della politica. Io non intendo accusare la classe dirigente del partito, ma occorre dire con chiarezza che in generale la scelta di centro-destra non ci ha giovato. Io voglio anche far notare che quella che a Bari poteva sembrare una scelta di opportunità, si è poi tramutata in adesione organica al centro-destra, sino a sposare interamente il "berlusconismo". Eravamo il partito della sinistra laica e democratica, non marxista, di derivazione risorgimentale, abbiamo finito per mostrarci all'opinione pubblica come un partito di destra, come spesso dimostrano le provenienze dei nuovi, pur scarsi, aderenti. Io insisto con il dire che nel partito c'è stata una modificazione genetica. Si può anche stare in una coalizione che non piace, ma bisognerebbe starci difendendo la propria autonomia e quel sano senso critico che era un dato distintivo del PRI. Credo che sia giunto il momento di riconsiderare i nostri rapporti con le altre forze politiche. Trovo rischioso per la sopravvivenza del partito che, nel momento in cui la Casa della Libertà mostra i primi segni di scollamento e la leadership di Berlusconi viene messa in discussione, la Direzione repubblicana si attardi su posizioni "filoberlusconiane" e non si schieri invece a fianco di chi lavora per disarticolare il bipolarismo e pensa ad un riassetto del quadro politico che tagli le ali estreme. Certo, la creazione di una federazione liberal-democratica repubblicana che si ricolleghi con l'ELDR è un fatto positivo, cui va dato merito alla Direzione del partito. Per continuare su questa strada è necessario tirare fuori il partito da un'alleanza che ne cancella l'identità e lo confonde con forze molto lontane dalla sua storia e dalla sua cultura. La permanenza nel centro-destra continua ad essere il punto del mio dissenso e del mio disagio e infine dell'impossibilità di riconoscermi nella maggioranza che ha retto da Bari in poi il partito. Sono convinto che il lavoro costante, anche se molto duro, di restituire autonomia al PRI e farne un punto di riferimento per tutti coloro che non si riconoscono in questo falso bipolarismo ridarebbe unità e forza al Partito repubblicano Italiano. Vorrei aggiungere qualcosa sul ponte sullo Stretto. Penso che quelli che ne parlano non siano mai stati in quello che è uno dei posti più belli del mondo e che un'infrastruttura così mastodontica distruggerebbe in modo irreparabile. Ancora più distruttive sarebbero le opere necessarie per collegare il ponte alle reti viaria e ferroviaria in Calabria e in Sicilia. |