Commemorazione del centenario della nascita di Ugo La Malfa

Intervento del Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini

(Camera dei Deputati-Sala della Lupa, Roma 20 maggio 2003)

Desidero in primo luogo ringraziare il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che ci onora della Sua presenza. Rivolgo un cordiale saluto al Presidente del Senato, Marcello Pera, ai rappresentanti del Governo e della Corte Costituzionale ed alle altre autorità convenute.

Un particolare pensiero rivolgo al figlio di Ugo La Malfa, Giorgio, nostro collega in Parlamento ed a lungo protagonista della vita politica del nostro Paese nel solco della tradizione repubblicana.

Ricordare presso la Camera dei deputati Ugo La Malfa a cento anni dalla nascita non è soltanto il doveroso tributo alla memoria di uno dei padri della Repubblica, protagonista nell’Aula di Montecitorio per sette legislature dopo aver fatto parte sia della Consulta nazionale che dell’Assemblea costituente.

E’ soprattutto l’occasione per riannodare le fila della vicenda storica nazionale, nell’ottica di una personalità che ha contribuito a determinare le scelte decisive dell’Italia repubblicana ed ha testimoniato la nobiltà della politica come passione civile e come impulso alla trasformazione della società.

L’alto senso della responsabilità dei "reggitori dello Stato" nei confronti dei cittadini – da ultimo riaffermato drammaticamente il giorno del sequestro Moro – si univa in lui alla consapevolezza, ma anche alla fiducia, nelle grandi potenzialità della politica per la modernizzazione del Paese e per il progresso individuale e collettivo.

Sulla scia di Giovanni Amendola, ma anche di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini, Ugo La Malfa ha saputo saldare forse più di ogni altro esponente della generazione dell’antifascismo una profonda ispirazione etica ed un impietoso realismo. Queste due componenti lo hanno condotto sempre a rivendicare il primato di una politica al tempo stesso delle formule e delle cose, in cui cioè la logica degli schieramenti fosse sempre funzionale alla logica dei contenuti.

La sua vocazione alla politica non nacque, infatti, all’interno di un’opzione ideologica oppure classista, ma dalla personale esperienza dell’arretratezza di un Paese che - a sessant’anni dall’unificazione - non era ancora diventato una patria comune, dall’urgenza della lotta per la libertà di contro alla dittatura mussoliniana, dall’aspirazione a fare dell’Italia una nazione europea come sola alternativa per la fuoriuscita dal sottosviluppo.

Democratico senza altri aggettivi, per tutta la vita La Malfa fu fedele all’intuizione amendoliana - purtroppo tardiva nei confronti dell’incipiente regime fascista, ma non per questo meno feconda - di dare una casa politica ai ceti medi che avevano a cuore l’integrazione nazionale delle masse, nella prospettiva dell’avanzamento morale e materiale della collettività.

Fu quindi uomo di partito, ed anzi sostenitore della democrazia dei partiti, ma mai uomo di parte. Fu ben consapevole anche delle difficoltà della vita di partito, come dimostrò quando si assunse immediatamente - in prima persona ed a testa alta - ogni addebito circa il finanziamento illecito dei partiti, dando una prova non trascurabile di assunzione di responsabilità ferma e serena. Essa nasceva dalla limpida coscienza di aver dovuto fare i conti con il costo della politica, ma di non aver mai sacrificato le sue idee né accettato compromissioni di sorta.

La sua casa politica La Malfa aveva dapprima cercato di realizzarla nel Partito d’Azione, alla caduta del fascismo, ma il tentativo era fallito nonostante il coraggio e la generosità del suo impegno, condiviso con il fraterno amico Adolfo Tino, a causa dell’esplosione delle contraddizioni tra le diverse anime di quella formazione.

Seppe invece innestarla, assieme ad Oronzo Reale, Michele Cifarelli e Bruno Visentini, al tronco mazziniano e cattaneano del Partito repubblicano, cui aderì all’indomani dell’elezione alla Costituente ed a cui successivamente condusse anche buona parte degli amici del "Mondo" di Mario Pannunzio, a cominciare da Francesco Compagna per finire con Giovanni Spadolini.

Del Partito repubblicano divenne presto esponente di spicco e poi leader indiscusso, mettendone a frutto la natura interclassista riconosciuta dallo stesso Togliatti e facendone la "coscienza critica" della vita politica italiana per circa un trentennio.

Il problema dell’Italia in generale, e del suo Mezzogiorno in particolare, era infatti lucidamente presente a La Malfa. Era il problema della ricerca di un nesso tra sviluppo civile e sviluppo economico, per instaurare un circolo virtuoso tra accumulazione e redistribuzione della ricchezza che sostituisse il circolo vizioso tra clientelismo politico e rendita parassitaria.

L’approfondimento della dimensione economica, passando anche attraverso la conoscenza del new deal roosveltiano, gli aveva conferito del resto una strumentazione di analisi della realtà italiana ed un bagaglio di soluzioni teoriche che lo resero sempre un politico sui generis, che pure non nutriva alcuna indulgenza verso la formula del governo dei tecnici.

Nella sua visione della politica economica - che non concesse mai spazio né alle suggestioni di stampo sovietico oppure jugoslavo né alle illusioni della terza via - il capitalismo assumeva comunque la natura di mezzo e non di fine. Il sistema collaudato di produzione della ricchezza in virtù della libera intrapresa avrebbe infatti consentito la realizzazione della democrazia, e cioè dell'"ordinamento in cui le genti attraverso l’opera dello Stato trovano via di miglioramento e di progresso".

Politica ed economia si intrecciano quindi indissolubilmente nel pensiero e nell’azione di Ugo La Malfa nelle diverse fasi storiche dell’Italia repubblicana, che egli visse sempre come uomo delle istituzioni, indipendentemente dal fatto che fosse o meno membro della compagine ministeriale: egli concepiva il governo della cosa pubblica come una responsabilità indivisibile di tutta la classe politica.

La stagione del centrismo gli consentì di ricollocare l’Italia nell’economia internazionale con la liberalizzazione degli scambi - grazie alla fiducia di De Gasperi e nonostante le resistenze del mondo industriale, aduso al protezionismo di Stato - nonché di partecipare alla definizione della politica meridionalistica e dell’intervento straordinario che avrebbe dovuto finalmente "inserire il Mezzogiorno nell’Occidente".

La svolta del centro-sinistra, di cui fu tenace assertore, era vissuta da La Malfa innanzitutto come il quadro politico che, acquisendo la componente socialista e riequilibrando a sinistra l’asse di governo, avrebbe potuto avviare il metodo della programmazione economica sulla base del coinvolgimento delle parti sociali. Era la chiave per consolidare i risultati degli anni del "boom", correggendone insieme le distorsioni ed allargandone la sfera dei beneficiari.

La politica di solidarietà nazionale – con l’apertura ai comunisti sulla base del riconoscimento dell’ineluttabilità del compromesso storico – avrebbe dovuto salvare il Paese dall’emergenza dell’inflazione a due cifre, cui si accompagnava la minaccia terroristica. Si trattava di creare le condizioni per la stipula di un patto sociale cui affidare la sospirata politica dei redditi, che il centro-sinistra si era dimostrato incapace di realizzare.

In ogni stagione storica, in ogni formula politica che La Malfa ebbe instancabilmente a tessere, dialogando direttamente - a dispetto della ridotta forza numerica del suo partito - con interlocutori che erano di volta in volta Nenni o Saragat, Fanfani o Moro, Amendola o Berlinguer, il punto fermo era però sempre costituito dall’ancoraggio euro-atlantico.

Sin dal marzo del 1949 egli aveva sostenuto alla Camera l’adesione alla NATO come strumento necessario per partecipare alla nascita dell’Europa unita. Egli sentiva fortemente la necessità di "aggrappare l’Italia alle Alpi" per scontare il "peccato originale" dell’arretratezza del Paese ed inserirlo pienamente nel campo dell’Occidente democratico.

Tale preoccupazione si accentuò ovviamente nella crisi degli anni Settanta. In quegli anni sembrò a La Malfa che stessero venendo meno le fondamenta stesse dello Stato repubblicano democratico che la sua generazione aveva costruito dalle macerie del fascismo e della guerra mondiale. L’intervista sul non-governo, rilasciata ad Alberto Ronchey nel 1977, si chiude all’insegna dell’amarezza: "Ora osservo che non c’è quell’Italia che avevamo in mente".

Ancor più accorato è il tono del suo discorso al 33° Congresso del PRI, nel giugno 1978, all’indomani del delitto Moro: "Se dovesse accadere qualche cosa di grosso che mettesse in forse l’avvenire del nostro Paese, che lo sprofondasse in una maggiore crisi, che mettesse in forse la sua libertà ed indipendenza internazionale – a questo ho sempre guardato e per questo non voglio un partito staliniano nel mio Paese – ebbene, se in quel momento io avrò un briciolo di forza, lo metterò al servizio del mio Paese e del PRI".

La Malfa tenne fede a quell’impegno solenne ed in quello che fu l’ultimo anno della sua vita non si risparmiò, gettandosi nuovamente nella mischia politica in prima persona.

Fu determinante nell’elezione di Sandro Pertini alla Presidenza della Repubblica e poi nell’imporre l’immediato ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo, per assicurare al suo Paese l’estrema garanzia della stabilità politica ed economica. Si spese quindi con entusiasmo sia da Presidente del Consiglio incaricato sia da Vicepresidente del Consiglio, sino al giorno della sua fine, il 26 marzo 1979, nel tentativo dapprima di raccogliere i cocci della politica di unità nazionale e quindi di traghettare il sistema politico verso nuovi equilibri.

La sua morte sul campo – l’amico Leo Valiani lo commemorò nella gremitissima piazza di Montecitorio – parve concedergli sinanco una popolarità ed una considerazione di cui la pubblica opinione gli era stata in vita alquanto avara.

A ventiquattro anni di distanza, in un quadro politico pur così profondamente modificato, ritroviamo intatta l’attualità non solo della sua ispirazione ideale, ma anche delle sue indicazioni programmatiche.

Alcune di esse hanno solo successivamente avuto applicazione - a conferma della modernità delle sue vedute - e sono diventate patrimonio comune della vita pubblica. Mi riferisco al liberoscambismo, alla politica dei redditi, alla distinzione tra la sfera della politica e quella dell’amministrazione, al nesso tra vita civile e vita produttiva nel Mezzogiorno, ma anche alla moneta unica europea ed alla salda collocazione occidentale del Paese.

Ugo La Malfa è poi e sarà sempre per tutta la classe politica un luminoso esempio di rigore e di coerenza, ed al tempo stesso di passione e di concretezza. L’anti-retorica innata nella sua sicilianità si univa ad una profonda e lungimirante consapevolezza della funzione direttiva della politica, che lo preservava dalle facili tentazioni della popolarità e dalle lusinghe del potere per il potere.

Amava infatti ripetere di essere alla ricerca non del consenso dell’oggi o del domani, ma di quello del dopodomani. E’ questa la cifra del suo "amore secolare" per l’Italia.