10 anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini Solo ciò che ha radici può modellare il presente di Giorgio Rebuffa Dieci anni orsono, quando Giovanni Spadolini morì, il sistema politico italiano sembrava avviato baldanzosamente sulla strada della trasformazione. I grandi commentatori (che sono, ahimè, almeno in parte, gli stessi di oggi) ci annunciavano senza esitazione la seconda repubblica e la scomparsa dello statista apparve a qualcuno addirittura simbolica. Non c'era in verità alcun simbolo della transizione. Oggi, consapevoli di esser stati vittime allora di illusioni e di distorsioni ottiche, tentiamo faticosamente di ritrovare proprio quel patrimonio di pensiero e di idee di cui Giovanni Spadolini è stato uno degli esponenti più alti. Ricordare Spadolini ci serve dunque, in primo luogo, per fare un bilancio del tempo trascorso. Bilancio tuttavia semplice ancorché doloroso, perché delle attese del '94 quasi nulla si è realizzato. Non la stabilità, ché quella che abbiamo di fronte n'è solo una parvenza, che maschera piuttosto l'immobilità; non la governabilità, ché la ricattabilità degli esecutivi è aumentata; non la rappresentatività del sistema, perché è incontrovertibile che gran parte del personale politico è designata centralmente. E neppure possiamo ascrivere al bilancio positivo il bipolarismo, perché le formazioni politiche oggi presenti e la stessa identità delle coalizioni in campo, non hanno nulla, se non le autoproclamazioni, di ciò che è appartenuto alla tradizione politica italiana. Viene proprio a questo proposito la grande attualità di Spadolini. Essa sta in ciò che egli chiamava, parafrasando il generale De Gaulle, "quella certa idea d'Italia che dal Risorgimento arriva intatta fino a noi". La stessa idea che dà fondamento al concetto di nazione: un sentimento di appartenenza non per ragioni mitiche (l'etnia) o egoistiche o imperiali, ma perché si hanno comuni tradizioni di uomini e di culture: solo ciò che ha radici storiche può dare fondamento all'azione politica. In caso contrario non si ha politica, ma azione violenta, "sovrapposizione retorica", per usare l'espressione con cui Spadolini designava la manipolazione della storia del Risorgimento fatta dal fascismo. Questa visione e questo insegnamento di Spadolini sono tra le cose di cui l'Italia di oggi ha più che mai bisogno per riprendere il filo della propria vicenda nazionale e per ridare legittimità e fondamento alla decisione politica. Ma questa visione della nostra storia in cui il Risorgimento si salda con la Repubblica costituzionale, non è l'unico insegnamento che la politica italiana deve trarre dal ricordo di Giovanni Spadolini. Sono i suoi stessi temi, quelli dello storico come quelli dello statista, che hanno bisogno di essere ripresentati alla politica. "Il Tevere più largo", stava ad indicare un equilibrio preciso tra lo Stato e la Chiesa, che oggi sembra aver rotto gli argini, anche per debolezza della politica che cerca fuori di sé stessa legittimazione e credibilità. Ma è forse soprattutto "l'Italia della ragione" che deve ritornare, quella per cui l'azione politica deve essere tracciata non dalle contingenze e dalle loro piccole necessita, ma dalle idee derivanti dalla tradizione nazionale e dalle loro grandi necessità. Intorno a lui la decadenza dell'ambiente accademico di Fabio Roversi Monaco Professore a 25 anni e già da allora giustamente considerato un illustre studioso, Giovanni Spadolini era nato accademico e l'università fu una presenza costante, anche se per certi periodi discreta, nella sua vita. Ebbi modo di conoscerlo nel 1970, quando con gli amici Paolo Ungari, Giuseppe Caputo, Pietro Rescigno e molti altri, costituimmo la lega universitaria democratica; Spadolini aderì e accettò più volte i nostri inviti a Bologna. Da allora fu sempre accanto a chi cercava di battersi per una università migliore, più aperta alla società ma tale da conservare un alto livello degli studi. In questo contesto, divenuto un esponente di rilievo del Partito repubblicano, egli operò prima come fondatore, poi come ministro, del Ministero dei Beni Culturali e successivamente come ministro della Pubblica Istruzione. L'università attraversò in quegli anni il periodo decisivo della sua crisi e subì mutamenti che l'hanno resa più debole, più incapace di far fronte ai bisogni della società e, per quanto possa apparire paradossale, meno democratica di quanto non fosse prima. Oggetto principale della sua attenzione, l'università fu da lui celebrata nel settembre 1988 in occasione del IX centenario dell'Ateneo di Bologna. Spadolini era allora Presidente del Senato e in Bologna ricevette anche una laurea honoris causa. Egli stesso volle porre tale riconoscimento al di sopra di tutte le altre, pur numerose, onoreficenze ricevute, tanto da richiedere un mio viaggio a Roma per la consegna della toga dell'Ateneo bolognese unitamente agli amici Matteucci, Varni e Ceccuti. Del resto questo atteggiamento era in linea con il privilegio non formale che Spadolini assegnava alla cultura, testimoniato anche dalla presenza di professori universitari e di uomini di cultura nei gruppi di lavoro che egli ebbe a costituire per la realizzazione del Ministero dei Beni Culturali e successivamente la preparazione del provvedimento di riordino della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L'università era ancora per Spadolini l'istituzione più qualificata per l'apporto dei migliori cervelli del Paese. Se il riordino dei Beni culturali e la costituzione del Ministero sono state caratterizzate da grande positività, non credo che altrettanto possa dirsi per i cosiddetti provvedimenti urgenti per l'università che pure furono emanati durante il ministero di Spadolini nel 1980. Spadolini non aveva alcuna responsabilità nella stabilizzazione degli incarichi e nel lassismo che caratterizzò gli anni fra il 1975 ed il 1980, connotato fra l'altro dalla possibilità di fare tre vincitori nei concorsi di assistente ordinario, mentre in precedenza il vincitore era unico. Tuttavia, il giudizio idoneativo a ruoli aperti, cui Spadolini fu costretto, ha spianato la strada a quanto di peggio è avvenuto negli anni successivi. Spadolini non riuscì a tenere testa ai partiti e ai sindacati e, benché cercasse con tutte le sue forze di garantire una prassi concorsuale pianificata, regolare e scadenzata, si trovò a soccombere di fronte alla spinta di chi, ormai stabilizzato, ricercava a tutti i costi un ruolo senza concorso. Spadolini non si rese conto in quella circostanza della decadenza profonda del mondo accademico, ormai evidente soprattutto nella facoltà di medicina e chirurgia, e credette così di evitare mali peggiori. Risale a quel periodo l'unico momento di tensione tra Giovanni Spadolini e me, in particolare a seguito di un mio articolo che attaccava la linea dei provvedimenti cosiddetti urgenti: il "compromesso giudizioso", come ebbe a definirlo lo stesso Spadolini, non era per me tale. Basti dire che i professori universitari di ruolo, poco più di 2000 nel biennio 1970-1971, divennero oltre 30.000 alla fine degli anni '80. Fu così che i giudizi idoneativi distrussero l'università italiana anche nelle sue espressioni più nobili, quale ad esempio la facoltà di scienze, quella di lettere, quella di giurisprudenza. Non credo, tuttavia, che qualcuno avrebbe potuto fare meglio di Spadolini: mancava la sensibilità politica, mancavano linee precise di governo e soprattutto si era spezzato il filo che legava l'insegnamento, la ricerca e la cultura al merito e all'impegno. Una storia questa che tuttora caratterizza l'atteggiamento delle forze politiche in termini trasversali. Spadolini e i repubblicani: sbocco politico naturale di Giancarlo Tartaglia Giovanni Spadolini amava dire che era stato "prestato alla politica", perché prima di arrivare in Senato come parlamentare repubblicano aveva diretto il "Resto del Carlino", "Il Corriere della Sera" ed insegnato Storia contemporanea nell'Ateneo fiorentino. Aveva, perciò, tutti i titoli per ritenersi un esponente di primo piano della società civile, del mondo della cultura e delle professioni. Ciò nonostante quell'affermare con insistenza di sentirsi "prestato alla politica", anche quando ne aveva percorso con successo un invidiabile cursus honorum, era una veniale civetteria. Perché, in fondo, Spadolini apparteneva integralmente alla categoria dell'homo politicus, nel senso più alto del termine. Da giovane professore di storia aveva voluto approfondire l'analisi di quei filoni ereticali, i repubblicani, i radicali, i cattolici, che una certa facile storiografia di maniera aveva inglobato nella storia dell'Italia sabauda. Non si trattava di una semplice curiosità di storico, ma rispondeva ad un'esigenza, tutta politica, di comprendere bene e sino in fondo quali fossero le vere radici della storia italiana, da dove nascessero i vizi e le virtù dell'Italia repubblicana e dei suoi interpreti principali, i partiti politici. E, non a caso, non considerava mai conclusi i suoi lavori. A differenza di altri storici, Spadolini ha sempre continuato a rivederli, ad aggiornarli, a riscriverli. La storia, in sostanza, era per Spadolini uno strumento indispensabile dell'azione politica. Quest'ansia di conoscenza e di azione fu trasferita nel giornalismo. Quando nel febbraio del 1968 assunse la direzione del "Corriere", Spadolini aveva ben chiaro che il suo ruolo non era soltanto quello di osservare e di narrare ai lettori i fatti della politica, ma principalmente quello di influire su di essi, di partecipare alle scelte della vita della nazione. Un ruolo più politico che giornalistico. Lui stesso racconta che proprio in quei mesi (siamo a febbraio del 1968) "furoreggiava la formula della ‘repubblica conciliare' a significare il primo incontro tra cattolici e comunisti, anzi fra gerarchia ecclesiastica e partito comunista" e che opponendosi a questa prospettiva chiamò a intervenire su questo argomento dalle colonne del "Corriere" Ugo La Malfa, "interprete per eccellenza del partito della democrazia laica", "che si era distinto con particolare calore e fervore" "nella denuncia dei pericoli e delle insidie connessi alla repubblica conciliare". L'incontro tra Giovanni Spadolini e il Partito repubblicano di Ugo La Malfa non fu, perciò, una casuale circostanza, ma lo sbocco naturale di una inarrestabile vocazione alla politica. E fu un incontro felice. La sua profonda conoscenza della storia repubblicana lo portò ad identificarsi con essa, ad intepretarne i valori più autentici: il senso dello Stato, la laicità delle istituzioni, l'appartenenza senza cedimenti al mondo occidentale, la difesa di Israele. Questi valori egli portò nella guida del Paese quando assunse per due volte la Presidenza del Consiglio. Una grande testimonianza di repubblicanesimo. Nel suo indomabile iperattivismo concretizzava il motto mazziniano: pensiero e azione, così lontano dai rituali della politica italiana. L'Italia gli deve molto e molto gli deve anche il Partito repubblicano, che sotto la sua segreteria raggiunse successi elettorali che ci fecero sognare. Fu lui, e non a caso, che si adoperò per il rientro, senza traumi, nel Pri, di Randolfo Pacciardi, un eroe leggendario della guerra di Spagna e dell'antifascimo, che aveva scritto pagine gloriose della storia repubblicana. Di questa storia centenaria Giovanni Spadolini è stato un grande e felice interprete. Dai noiosi uffici di Bruxelles fino a Piazza dei Caprettari di Fabrizio Tomada Sono passati dieci anni dalla scomparsa del Presidente e a me manca tanto quanto a tanti di noi, a tutti coloro che lo hanno conosciuto e a molti altri. Cominciai a collaborare con il Presidente oltre vent'anni fa. Nell'autunno del 1982 complici Luigi Compagna e Stefano Folli che avevano parlato di me al Presidente Ero reduce da un anno alla CEE (allora si chiamava così) e potere prestare servizio ad un uomo politico non mi pareva vero. Confesso che avevo tutta un'altra idea della vita dei politici italiani. Gli ambienti a Bruxelles allora erano tutti ovattati, silenziosi, si respirava un'aria da alta e distinta diplomazia. Erano gli anni di Emile Noel - il primo segretario generale della Comunità Europea - di Natali e di Giolitti, i due commissari di marca italiana. Ambienti molto soft che mi avevano abituato a condurre una vita silenziosa, ordinata …molto Europa del nord. Un po' noiosa.. Allora il nostro Paese era conosciuto per il sole ed il bel canto: c'eravamo anche noi ma non contavamo. E' in questo clima che mi formai, guardando il mondo politico da un posto distante e lontano dalla Capitale… Siamai! Non sapevo quello che mi aspettava negli anni successivi. Arrivato a Piazza dei Caprettari ed introdotto nello studio del Presidente, dopo avermi rivolto uno sguardo rapido mi chiese con un sussurro velocissimo " Batti a macchina? Sai usare il registratore…e con gli archivi hai mai avuto a che fare?". Beh, confesso che rimasi un po' stupito. Il secondo giorno mi chiamò da lui (il telefono di Magri a Piazza dei Caprettari aveva una linea diretta e Ugo mi chiamò dicendomi "ti vuole il nostro" corri "): scattai pronto, come un perfetto funzionario della comunità. Avevo tutto in mano…carta, lapis, registratore da tasca, portamento da euroburocrate: non serviva. Dopo avermi salutato con quella frase che poi divenne usuale negli anni, " Ciao caro", (strisciando l'erre moscia come era uso fare) mi mise in mano due pacchi di lettere - tutte facenti parte di quel carteggio della Presidenza del Consiglio - di capi di stato e di governo, personalità politiche in genere - dicendomi "sono originali, mettili in ordine cronologico, schedali e non perderli. Ora prendi il registratore".(Riteneva normale che un Suo collaboratore girasse con in tasca un registratore…). Cominciò a parlare per oltre un'ora abbondante, fitto fitto, facondo nell'eloquio e nella prosa. Recitava quella parte che più tardi capii essere la Sua vita, la vita di colui che sapeva bene interpretare la parte del protagonista di quel grande spettacolo che era la politica E per tanti anni gli sentii più volte ripetere "Ricordati: la politica è spettacolo. Ma non sempre uno spettacolo ha il successo che merita !". Rimasi in silenzio e ascoltai tutto ciò che disse con attenzione.Alla fine mi richiamò e mi disse: "Naturalmente sul mio tavolo domattina alle 9.00… in punto ". Lavorai per l'intera notte ed alle 6 del mattino avevo finito. Alle 9 il "trascritto" era sul tavolo del Presidente. Quando arrivò mi chiamò e mi accolse con soddisfazione. Avevo superato l'esame, quella prova di fiducia che voleva da un suo assistente. Mi aveva dato un compito e lo avevo portato a termine come desiderava lui, nei tempi voluti da lui."Bene", mi disse, e da quel giorno trascorsi vent'anni intensi a fianco del Presidente: alla Difesa, al Senato, nei giorni, in quegli ultimi giorni di solitudine, nello studio da senatore a vita a Palazzo Giustiniani. Anni trascorsi con quella velocità, la stessa con la quale si rivolgeva a te per avere immediatamente uno scritto una lettera un attimo della tua vita. Anni intensi per tutti noi che certamente lo rimpiangiamo. Aprì una nuova fase di maggior dinamismo di Bruno Trezza Quando ricordo Giovanni Spadolini mi sembra di pensare ad un tempo lontano ed allo stesso tempo vicino; lontano perché Spadolini era un uomo appartenente ad un'epoca molto diversa da quella attuale; vicino, perché nella mia mente il mondo italiano di oggi vede la sua nascita proprio nel momento della maggiore popolarità e del maggior impegno di Giovanni Spadolini nella vita pubblica del nostro Paese. A mio avviso, il lungo tempo di stabilità politica iniziato nel 1948, basato da un lato, sulla centralità della Dc e, dall'altro, sul lento evolversi del rapporto con le sinistre, raggiunse il termine con la fine della solidarietà nazionale. La Dc ha, di fatto, terminato il suo compito e le sinistre hanno percorso tutta la strada sino alla soglia del governo. Il mancato sbocco, adeguatamente modificatore della società, delle forze non legate al sistema ha già, dopo il 68, lasciato libero il campo alle forze eversive del terrorismo. Dopo la morte di Moro, l'ultimo tentativo di trattare con le sinistre unite fu quello immaginato da Ugo La Malfa con il governo Andreotti. Ma la morte di La Malfa all'inizio del 1979 rese questo tentativo non più perseguibile; le elezioni che immediatamente seguirono ebbero segno ben diverso e lo stesso Partito repubblicano le condusse in una linea di marcato confronto. Nella fase di transizione che seguì, che vide il completarsi della linea Craxi nel partito socialista ed il riavvicinarsi di questo partito al governo, emerse la segreteria di Giovanni Spadolini nel Pri. Avevo conosciuto Spadolini come responsabile economico del partito e con lui avevo stretto un cordiale, ma non approfondito, rapporto. Assunta la segreteria Spadolini mi confermò, bontà sua, nella mia funzione ed iniziò una collaborazione molto stretta di alcuni anni. Il primo banco di prova dove si strinse il nostro rapporto furono i governi Cossiga che videro il recupero dei liberali ed il ritorno in maggioranza dei socialisti. La svolta avvenne con il governo Spadolini nel giugno del 1981. Da tante parti Spadolini è stato detto il primo presidente laico dell'era repubblicana, ma il governo Spadolini fu molto di più. Da un punto di vista generale il governo Spadolini costituì il passaggio da una fase di stabilità ad una fase dinamica della politica italiana con la spaccatura delle sinistre, con un Partito comunista che si trovava ributtato indietro su posizioni di netta opposizione al sistema. Da un punto di vista più specifico il governo Spadolini si trovò ad affrontare tre gravi problemi: lotta al terrorismo, lotta all'inflazione, riassetto del sistema industriale e l'allentamento sia dell'abbraccio con il sindacato nel quale l'aveva gettato anni prima Giovanni Agnelli, sia del cappio rappresentato dallo statuto dei lavoratori. Il governo ebbe successo in tutte queste direzioni; di particolare importanza fu la soluzione al terzo problema. Sino all'inizio degli anni 80, lo sviluppo era stato considerato come dato, o in ogni modo ottenibile, difendendo la competitività del sistema mediante opportune svalutazioni, per cui il problema sembrava piuttosto essere quello della distribuzione. Distribuzione a favore dello sviluppo del Mezzogiorno, secondo i più illuminati; distribuzione tra salari e profitti secondo le parti sociali e le sinistre e, come scopo, la pace nelle fabbriche. La situazione era ormai diversa e si trattava di ricostituire le condizioni per lo sviluppo industriale, nel far ciò occorreva ottenere la cooperazione delle forze sindacali che dovevano arretrare rispetto a posizioni e pratiche sino ad allora mantenute con forza. Il risultato fu ottenuto offrendo al sindacato una forte sponda politica e mediante un'attiva azione dello stesso Spadolini che aprì un rapporto diretto con queste forze sino a presenziare, primo Presidente del Consiglio, il congresso nazionale della Cgil. Il governo Spadolini e Spadolini stesso dettero, quindi, inizio ad una nuova fase politica di maggiore dinamismo ed aperta a nuovi scenari, non solo nel suo aspetto generale, ma anche e soprattutto nella sua specifica caratterizzazione rispetto al sistema economico. Fu su questa base che si innescò la successiva azione di sfida del governo Craxi e delle forze più moderate e fu sull'apertura così realizzata che si innestò la successiva lotta politica; lotta che vide Spadolini sempre meno protagonista e che poi sfociò negli anni ‘90 dai quali nessuno dei partiti coinvolti doveva riemergere, tutti consumati in un feroce crogiuolo, come l'Italia non aveva visto dalla fine della guerra. Spadolini aprì le porte al nuovo, ma di questo nuovo e dei suoi eccessi non fu responsabile; ebbe la rara fortuna di impersonare per un breve periodo le esigenze del Paese e il grande merito di saper cogliere appieno quelle esigenze. Ciò che seguì non era per la civiltà e la cultura del suo animo ed i tempi che viviamo gli sarebbero parsi estranei ed assurdi; è proprio per questo che è ancora più importante, oggi, ricordare l'uomo, la sua profonda civiltà, il suo amore per il Paese, la sua azione politica, il suo insegnamento culturale. Spadolini anticipatore del premierato forte/Una lettura del suo importante "decalogo" Vocazione riformista e ruolo centrale del capo del governo Articolo pubblicato su "il Riformista" del 4 agosto 2004. di Tommaso Edoardo Frosini Spadolini riformista? Il quesito rampolla da un dubbio, si potrebbe dire da una riluttanza, che è quella di collocare il suo nome e la sua politica oltre la mediazione, il compromesso, la ricerca di un equilibrio. Oggi, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, si può e si deve provare a leggere lo Spadolini uomo e uomo di governo come colui che volle e seppe gettare le basi per una politica di riforme, in materia istituzionale specialmente. Lo Spadolini mediatore, invece, appartiene ad un modo di pensarlo condizionato dal suo modo di essere bonario e ragionevole, e dal fatto che divenne leader di un partito che aveva intorno al 3 per cento di consensi elettorali (ma con lui superò il 5 per cento), e quindi privo di una concreta forza propositiva e riformistica ma piuttosto avviluppato nel bisogno di compromesso. E' questo un modo di pensare Spadolini e con lui la politica del Partito repubblicano non solo inesatto, ma che stride e confligge con quello che è stato l'impegno politico e istituzionale. Anche i richiami, talvolta un po' abusati, che si fanno alle sue parole d'ordine, che sono poi titoli di alcuni dei suoi numerosissimi libri, quale "L'Italia della ragione" e "L'Italia di minoranza", lasciano immaginare, nella vulgata, un modo di essere e di pensare non tanto riformistico quanto tradizionale, elitario e risorgimentale. Se adesso proviamo a tirare fuori lo Spadolini riformista, non è per svolgere un esercizio di revisionismo storico ma piuttosto per spolverare un pezzetto di storia istituzionale restituendole così il giusto colore. Con una precisazione. Qui si parlerà soltanto di Spadolini riformista delle (e nelle) istituzioni, in particolare della sua visione del ruolo dell'istituzione governo nella democrazia italiana. "Riformismo, il riformismo dei riformatori scrive Spadolini nel libro intervista di Laterza significa interpretare lo spirito profondo delle istituzioni, quale ci è stato consegnato dai padri fondatori della Costituzione, e renderlo esplicito nella storia del nostro tempo, al confronto con le esigenze nuove della società civile". A rileggere il mandato di Spadolini quale presidente del Consiglio (da giugno 1981 a novembre 1982, con la crisi di 16 giorni d'agosto dell'82, superati i quali si ebbe lo Spadolini bis), non si può non rimarcare l'esperimento che egli volle fare per costruire, sebbene a Costituzione invariata, un "regime del primo ministro": un'anticipazione di modello di premierato, oggi possiamo dire, che esalti il ruolo guida del governo e del suo presidente in un sistema parlamentare parimenti forte. Capovolgendo così l'illusione ottocentesca, che la forza dei parlamenti fosse nella debolezza dei governi e viceversa. Come diceva Spadolini presidente del Consiglio: "A un governo istituzionalmente forte corrisponde un parlamento forte, a un governo debole corrisponde un parlamento debole". I passaggi del "premierato" spadoliniano emergono chiaramente nelle scelte che vennero fatte e nelle proposte che furono avanzate durante il governo Spadolini. E non mi riferisco solo al famoso decalogo istituzionale. Innanzitutto, la convinzione che il governo debba essere sostenuto dai partiti senza essere dei partiti e neppure delle delegazioni dei partiti; quando si forma un governo si esce dall'articolo 49 della costituzione e si entra nell'articolo 94, cioè in un'area istituzionale più vasta estranea alla partitocrazia. Quindi, l'obiettivo è quello di creare la zona di distacco tra governo e partiti nel coagulo dei poteri di scelta, di direzione unitaria e di coordinamento attivo, per capacità di impulso proprio, del presidente del Consiglio. Mettere al centro il presidente del Consiglio vuol dire creare nell'istituzione governo il luogo delle responsabilità ministeriali; vuole altresì dire dotare la presidenza di istituti e procedure volte a dare sostanza ai poteri da esercitare: come avvenne con i decreti del 12 settembre 1981 e 29 aprile 1982 con i quali si crearono una serie di strutture di supporto alla presidenza. E poi, si sottolinea un altro proposito tipico del modello di premierato, che venne pubblicamente manifestato in un discorso in Parlamento: "Reputo necessario che si formi una prassi costituzionale tale per cui il presidente del Consiglio possa proporre al presidente della repubblica la revoca dei ministri e dei sottosegretari". Ancora, la proposta di avocare al Consiglio dei ministri affari deferiti a comitati interministeriali, così come l'assunzione di diretta responsabilità del presidente per il settore dei servizi segreti. E poi c'è il decalogo istituzionale. Dieci punti di revisione istituzionale sui quali venne data investitura ad un governo, fatto questo non solo inedito ma assai significativo. Non li elenco, ma li sintetizzo nella formula del "governo in parlamento": e quindi riforme dei regolamenti parlamentari sul voto segreto, sulla legge finanziaria, e per garantire al governo "i tempi della decisione parlamentare sulle proprie iniziative programmatiche" (evitando così l'abuso dei decreti legge); e poi, riforma della presidenza del consiglio e dell'organizzazione ministeriale "su modelli europei", riforma delle autonomie locali in grado di dare una nuova configurazione ai poteri locali. Insomma, un decalogo istituzionale certo non timido per allora, ma che portava in sé una grande riforma: quella dell'autonomia dei poteri di direzione e di promozione del premier, che rappresentava una novità dopo il tentativo De Gasperi, e che offrirà le condizioni politico-istituzionali, pochi anni dopo, a Bettino Craxi per poter governare a lungo e con piglio decisionista. Spadolini riformista delle istituzioni?
La risposta è si. Avvalorata da una specificazione tutta spadoliniana:
in democrazia non si va al potere ma al governo. E con le valigie pronte.
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