10 anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini Beni Culturali: ci voleva la sua vulcanica personalità di Tommaso Alibrandi Ho avuto l'onore di conoscere personalmente Giovanni Spadolini, quando nel 1978 mi recai da lui per chiedergli di presentare il mio libro sui Beni culturali. Egli cortesemente acconsentì, la presentazione si svolse in quel circolo "2 Giugno" che sicuramente molti repubblicani ricordano ancora con nostalgia. Nel 1975 Spadolini aveva creato il Ministero, con un blitz legislativo che ricordò sempre con compiacimento. Ci voleva la sua vulcanica personalità per realizzare in pochi mesi ciò che normalmente avrebbe richiesto tempi molto più lunghi. Ma Spadolini, da quell'uomo di cultura che era e forse anche da fiorentino aveva compreso perfettamente l'importanza che in un Paese come l'Italia ha il patrimonio nazionale delle cose di interesse storico e artistico; e, da gran giornalista aveva anche colto che quello era il momento opportuno per dare vita all'iniziativa. Fatto sta che dal 1975 tutta la materia ha avuto uno sviluppo vertiginoso e l'attenzione per i Beni culturali è ormai profondamente radicata nella sensibilità della gente. I giovani che oggi si sottopongono a lunghe file per visitare questo o quel grande museo non sanno nemmeno quanto poco affollati fossero quegli stessi ambienti trent'anni fa. Spadolini aveva ben forte la consapevolezza che il patrimonio culturale fosse di valenza nazionale come grande testimonianza della civiltà italiana nel suo complesso. Anche qui la storia gli ha dato ragione. E così, coloro che negli anni '80 erano accesi regionalisti, quando nel 2001 sono stati in condizione di modificare l'art. 117 della Costituzione, non hanno potuto che riservare la tutela dei beni culturali alla legislazione esclusiva dello Stato. Nel frattempo era accaduto che per una osmosi intellettuale, che probabilmente sarebbe piaciuta ad un liberale come Spadolini il culto della tutela era stato fatto proprio dalla sinistra, la quale vi ha impegnato intelligenza e capacità tecniche e francamente non può non dispiacere che l'attuale maggioranza di cui il Pri è componente leale mostri così scarsa attenzione alla materia. La politica delle dismissioni può andar bene per il patrimonio dello Stato in generale, ma non per quei beni che sono caratterizzati da un rilevante interesse storico - artistico. Qui il liberismo economico si deve fermare, giacché l'opera d'arte non è una merce qualsiasi ma il simbolo della stessa identità nazionale. Del resto, pur prescindendo da tante ragioni ideali e tecniche, la dismissione dei Beni culturali è un errore anche politico. La sensibilità della gente è ormai così acuita nei confronti dei nostri capolavori che probabilmente ottiene più consenso l'apertura al pubblico di una galleria d'arte che la costruzione di una nuova centrale elettrica. E, per quanto specificamente riguarda il Pri, non c'è che da augurarsi che il partito voglia riprendere in pieno questa grande eredità spadoliniana. Ci sono idee forti che muovono l'opinione pubblica più di tante altre pur apprezzabili iniziative. I Beni culturali sono una di queste idee. E, se i Verdi hanno costruito una posizione politica sull'idea trainante dell'ambiente, non si capisce perché i repubblicani non dovrebbero rivendicare con forza il loro primato in una materia che è stata letteralmente creata da un grande repubblicano. Spadolini, nella sua vita politica ha fatto molte cose ed ha raggiunto posizioni di responsabilità ben superiori a quella di ministro per i Beni culturali. Egli stesso tuttavia non dimenticò mai questa sua creatura prediletta. Il nostro ultimo incontro avvenne nel salone grande del Ministero, nel corso di una cerimonia ufficiale. Al termine del rito, Spadolini mi prese da parte per qualche minuto, per chiedermi come andassero le cose ai beni culturali. Potei tranquillizzarlo serenamente, il ministro era Alberto Ronchey. Spadolini era molto smagrito e già gravemente segnato dalla malattia; ma non dimenticava quella che fra tutte le sue opere era e rimane probabilmente la più duratura. Perché il Professore non amava le vacanze di Roberto Balzani Cerco di rispondere a una domanda. Questa: "Che cosa ha rappresentato, per te e per la tua generazione, fra i venti e i trent'anni, il Professore?". Risposta ingarbugliata e complessa, che mi piacerebbe tanto risolvere con l'eleganza e l'equilibrio di un bel discorso à la Giovanni Spadolini. Ma non ci riesco. Perché, fra il 1980 e il 1994, troppo elementi hanno finito per sovrapporsi, nella vicenda mia e in quella degli altri ragazzi che, come me, hanno lavorato per il Professore. Elementi intellettuali, senza dubbio: Spadolini rappresentava la quintessenza per noi meravigliosa - di un pensiero che si tramutava in azione. Gli bastava scrivere un fondo, e l'onda delle sue parole si rifrangeva sulla spiaggia della politica, e tornava indietro, portando l'eco di consensi e di dissensi. Creare una corrente d'opinione, e quindi guidarla, era un modo per lui del tutto naturale di muoversi nell'ambiente un po' grigio e criptico della "Repubblica dei partiti". La "cultura", all'interno dell'ambiente di cui sopra, costituiva il valore aggiunto del Professore, l'asso di bastoni da calare alla bisogna: nessuno, all'interno della classe politica di allora, poteva permettersi di fare altrettanto. Perciò, storia e politica, libri e programmi di governo, finivano per fondersi in un continuum, che il Professore cercava in consapevole contraddizione con se stesso di tenere divisi nei suoi "luoghi" (Pian dei Giullari e via Cavour, a Firenze; piazza dei Caprettari, Palazzo Chigi, Palazzo Giustiniani, a Roma) e nei suoi più reconditi "spazi" mentali. Inutilmente: perché molti di noi lo avevano compreso, dopo un po' era proprio quella fusione, quella straordinaria macchina politico editoriale - giornalistica a dar senso, in ultima istanza, all'identità intellettuale di Giovanni Spadolini. Sono appartenuto, per scelta e per vocazione, ai "ragazzi" di Firenze: ai pochissimi, cioè, che dovevano occuparsi della manutenzione culturale del "discorso pubblico" spadoliniano. La maggioranza dei miei amici, invece, era a Roma, schierata lungo il fronte della politica contingente, esposta ai fuochi d'artificio quotidiani della lotta degli interessi e delle parole. Mi sembrava di stare in una retrovia privilegiata: i tempi del Professore, a Firenze, erano meno concitati e c'era spesso la possibilità di chiacchierare con qualche agio, e, quindi, d'imparare. Spadolini aveva piena consapevolezza delle dinamiche della ricerca e, anche quando si trattava di costruire un discorso d'occasione, concedeva margini sufficienti per una preparazione ponderata e adeguata. Il secondo elemento, che s'interseca con il primo, è la dimensione pubblica/privata della personalità del Professore. Mi colpiva il fatto che, di nuovo, non esistesse soluzione di continuità fra le due, e che l'una finisse di fatto per assorbire e risucchiare l'altra. Anche quando si trattavano questioni personali, Spadolini conservava un approccio "intellettuale": non accademico o professorale, no; ma proprio intellettuale. Nel senso che il giudizio era costruito sulla base di parametri non usuali, non tipici del mio quotidiano, e di quello di tanti, tantissimi altri. Era uno sguardo del tutto atipico sul mondo; come se i suoi occhi chiari lasciassero filtrare particelle di realtà che, nel caso della gente comune, si arrestavano prima, addensandosi sulle ciglia. Il terzo elemento era il fatto che il Professore odiava le vacanze e che, anzi, durante le vacanze di frequente mi chiamava per parlare dei libri e dei progetti futuri. Le vacanze erano una stasi tutta privata che lui, uomo pubblico/privato, subiva con fastidio, come un'inutile interruzione nel tempo limitato che ci è dato per "fare qualcosa". Per questo cercava in tutti i modi di aggirarle, di esorcizzarle, di trasformarle in momenti utili. Lo sa bene il suo allievo prediletto, Cosimo Ceccuti. In un paese familistico come l'Italia, il Professore sembrava veramente un marziano. Eppure, in quegli anni, fu una stella di prima grandezza della politica italiana, perfettamente a suo agio fra i familismi, le "congiure" del milieu romano, i duelli fra i partiti. E io mi sono spesso chiesto come facesse, lui che era così diverso e che avrebbe potuto fare tante altre cose, a sguazzare come un pesce all'interno di un acquario che, in fondo, gli somigliava così poco. La risposta che si sente, più frequentemente, è quella che fa riferimento alla sua vanità, al suo ego decisamente ipertrofico. Tutto vero, senza dubbio. In fondo in fondo, però, c'era l'illusione dell'intellettuale che accetta di "sporcarsi le mani" per fare migliore il Paese in cui vive, correndo il rischio di restare invischiato nelle contraddizioni di un sistema tutt'altro che limpido. Spadolini diceva di avere un "debito" con Piero Gobetti: ed era vero, dopo tutto. Così vero che tanti ragazzi, per saldare quel debito, lo hanno seguito fino al termine della sua avventura. Il percorso della Storia, costantemente incompiuto di Cosimo Ceccuti "Al mio Giannone piccolo storico, per la Fiera del libro 1933. Babbone". Questa la toccante dedica che il padre di Giovanni Spadolini Guido, appose il 29 maggio 1933, alla "Vita di Garibaldi" di Epaminonda Provaglio. La dedica "consacrava" il piccolo storico, che a solo otto anni aveva ormai rivelato la propria inclinazione e passione. L'esordio vero e proprio di Spadolini dopo un paio di agili sintesi con Vallecchi, "Ritratto dell'Italia moderna" e "La lotta sociale in Italia" sarebbe avvenuto nel 1948 a soli ventitre anni, con "Il 48. realtà e leggenda di una rivoluzione", in occasione della ricorrenza centenaria. Il libro riscosse l'elogio di numerosi storici, tra i quali Gaetano Salvemini. "Il libro è arrivato. Bellissimo! - gli scriveva dagli Stati Uniti Letto con vera gioia e con consenso continuo. Condensa un'immensità di letture su fonti di prima mano e di pensiero". Due anni dopo, nel febbraio 1950, usciva "Il papato socialista", originale provocatoria analisi della posizione del papato nei confronti della questione sociale, che avrebbe conosciuto una lunga serie di edizioni e di ristampe. Nel novembre dello stesso anno a Spadolini è affidato l'incarico di " Storia moderna II" all'università di Firenze, da lui subito trasformata di fatto in "Storia contemporanea". I suoi primi corsi universitari, dedicati all'opposizione cattolica e laica nello Stato italiano post unitario, anticiparono l'uscita nel 1954 de "L'Opposizione cattolica da Porta Pia al 98": un'analisi assolutamente indipendente dalle influenze o dai condizionamenti della storiografia, che aveva sempre relegato in un angolo la storia dei cattolici politici. Parallelo a questo il versante dell'opposizione laica analizzato ne "I radicali dell'Ottocento" e ne "I repubblicani dopo l'unità", anticipati su periodici e riviste, a cominciare dal "Mondo" di Mario Pannunzio, e raccolti in volume nel 1960: la storia dei partiti dell'opposizione democratica, di coloro che per più di vent'anni non avevano conosciuto la legittimità dello Stato unitario nella forma monarchica e moderata ed avevano attivato movimenti di iniziativa politica ai limiti della sovversione. Momenti anche questi trascurati o negletti dalla storiografia tradizionale . Ideale continuazione de "L'opposizione cattolica", nel 1959, uscì "Giolitti e i cattolici", un libro il cui protagonista non era più il mondo cattolico, ma lo Stato liberale nella sua espressione giolittiana, che inizia un processo di assorbimento cauto, graduale, accorto del laicato credente. Nel 1960, a coronamento dell'impegno storiografico di Spadolini, giunse la vittoria nel primo concorso a cattedra di Storia contemporanea bandito dall' Università Italiana. La lunga aspettativa per mandato parlamentare, iniziata nel 1972, non interruppe gli studi, né il coordinamento delle ricerche che proseguirono senza sosta. Rimase immutata la collaborazione ai grandi quotidiani italiani, in particolare "La Stampa" di Torino, così come l'impegno profuso nei congressi storici specie in qualità di Presidente della Giunta Centrale di Studi Storici. Negli anni della Segreteria del Partito repubblicano fra 1979 e 1987, "La Voce Repubblicana" portava avanti con la direzione di Stefano Folli, offrirà ai propri lettori pagine culturali di straordinaria intensità e rilievo. In questa seconda fase della vita Spadolini riprende e sviluppa l'interesse per Firenze, per i suoi protagonisti, per la sua storia. Interessi espressi fin dal 1950 nel saggio dal titolo esemplare e quasi didascalico "La storia fiorentina". Un testo base che alimenterà più tardi, nel 1977, l'opera "Firenze mille anni", una storia essenziale della città, in meno di duecento pagine, storia degli ordinamenti e delle istituzioni politiche fiorentine, nel loro inscindibile nesso con l'evoluzione culturale e civile del capoluogo toscano. In realtà Spadolini aveva pubblicato, in quel quarto di secolo, due opere di grande successo: "Firenze capitale", nel 1966 e "Il Cesare Alfieri' nella storia d'Italia" (la vicenda centenaria della sua facoltà), nel 1975. Ma è da quel biennio, 1977 1978, che data il lungo lavoro di ricerca e di scavo sull'Ottocento fiorentino e toscano. Causa prima, la battaglia combattuta da Spadolini per salvare la " Nuova Antologia", rivista che dirigeva come direttore - ombra dal 1955 (a causa della incompatibilità formale con la direzione del "Resto del Carlino" e del "Corriere della sera"), e, alla luce del sole dal 1972, anno della sua prima elezione al Senato nel primo collegio di Milano. Nasce, con un piano organico, la serie dedicata a Firenze, che alimenterà la collana delle "opere illustrate". Una serie che ha come motivo conduttore, come "filo rosso" la ricerca dell'idea dell'Italia, dell'Italia come nazione e dell'idea d'Europa, Europa intesa come "un gran corpo civile" come l'aveva definita Gibbon che convive col patriottismo romantico e addirittura nutre il secolo delle nazionalità. In questo spirito si succedono le raccolte di scritti "Fra Viesseux e Ricasoli" ( 1982), "Firenze fra 800 e 900" ( 1983) e gli studi originali su "La Firenze di Gino Capponi fra restaurazione e romanticismo" (1984), "La Nuova Antologia dal Risorgimento alla Repubblica. 1866 1988" (1988), "La Firenze di Pasquale Villari" (1989). Come già sosteneva Francesco De Sanctis, alla metà del secolo scorso, anche per Spadolini, cultura e politica non sono scindibili. Dalla metà degli anni Settanta fiorisce altresì un serie di opere e di scritti in cui l'intuizione del politico, la preparazione dello storico e l'efficacia del giornalista si affiancano a particolari doti di scrittore. Si pensi alla serie dei "Bloc notes" e, prima ancora ai volumi "Cultura e politica" (1976), "L'Italia della ragione" (1978), "L'Italia dei laici" (1980), "Il mondo di Luigi Salvatorelli" (1980), "Il partito della democrazia" (1983), "L'Italia di minoranza" (1983), "La stagione del Mondo'" (1984), "Il debito con Croce" (1990), "Gobetti: un idea dell'Italia" (1993). Gobetti, il "suo" Gobetti, oggetto del 'primo articolo sul "Messaggero" (1948), punto di riferimento costante, morale e civile per tutta la vita. Fra le opere più significative vi è certamente "Gli uomini che fecero l'Italia", giunta dopo innumerevoli ristampe, nel 1993, all'edizione definitiva, con i profili di 112 protagonisti da Vittorio Alfieri a Luigi Einaudi della vita nazionale, in tutte le sue espressioni, dalla letteratura alla politica, dal teatro all'industria, dal giornalismo alla religione. Un libro autobiografico, riassuntivo di una vita di studi e di impegno civile. Un aspetto centrale della riflessione storiografica spadoliniana era l'ampiezza delle prospettive, la necessità di inquadrare la storia d'Italia in un processo di lunga durata della storia europea, ricercandone le comuni radici, i legami profondi e nascosti, senza per questo dimenticare certi innegabili peculiarità, i ritardi e le distanze. Le origini del Risorgimento il Professore non le collocava, secondo la prassi, nel 1815, l'anno del Congresso di Vienna e della Restaurazione, ma nella stessa rivoluzione francese e nella grande ondata di cambiamenti che si riversò nella penisola, prima con le repubbliche democratiche, poi con la dominazione Napoleonica. Il Risorgimento cui guardava Spadolini era allo stesso tempo la rivendicazione di una eredità nei suoi aspetti migliori e universali, e la liquidazione di una retorica, quella che indulgeva alla storia come maniera, come conciliazione degli opposti, quando invece le vicende Italiane dell'Ottocento furono anche costellate dalle lotte e dai dissidi fra le stesse correnti patriottiche, basta pensare al contrasto fra Cavour e Mazzini, fra lo stesso Cavour e Garibaldi. "Chi studia il Risorgimento con animo critico - precisava nel 1986 al di fuori di ogni pregiudiziale settaria o deformante, non ha regole da imporre né consigli da suggerire. Richiama gli Italiani, che affrontano ormai gli orizzonti del nuovo millennio, rappresentanti di un paese profondamente trasformato rispetto a quello in cui siamo nati noi stessi, al senso della continuità nella novità, alle radici della loro storia nella coscienza del nuovo che avanza". Una storiografia, la sua, frutto di un ripensamento organico dei fatti, di un'autentica identificazione col tema trattato che tuttavia non doveva sfuggire alle regole stringenti e ardue della ricerca dell'obbiettività. Accanto alle valutazioni concrete e a i dati di fatto obbiettivi, l'indagine sui "miti" e le idee - forza troppo spesso trascurate, gli stati d'animo, i valori e gli ideali delle classi dirigenti che esercitano di volta in volta il potere: personaggi colti nelle loro manie, in atteggiamenti e in posizioni caratterizzanti non soltanto la vita politica , ma anche quella morale e civile. Nella scia dei valori che hanno costituito la stella polare di una vita intera, nel 1980, con l'occhio rivolto al futuro, Spadolini costituì la Fondazione Nuova Antologia. Una volta salvata la gloriosa rivista ultracentenaria della grave crisi di pochi anni prima, l'idea della Fondazione scaturì quale garanzia di tutela dell'autonomia della testata e insieme della continuità delle pubblicazioni, come è avvenuto puntualmente anche in questi ultimi dieci anni. Con il passare del tempo, gli scopi della Fondazione - lasciata da Spadolini sua erede universale - si sono allargati, caratterizzandosi come un autentico centro di promozione di cultura, per sviluppare e coordinare ricerche e pubblicazioni sulla storia contemporanea, istituire concorsi, borse di studio, iniziative varie a sostegno della ricerca e dei giovani. Una vita intera spesa fra giornalismo, università, politica, impegno nelle istituzioni: una vita in cui la riflessione sulla storia ha costituito davvero un momento centrale ma non esclusivo, " perché per noi laici - amava ripetere Spadolini la storia non solo ha modelli da imporci ma non conosce termini da raggiungere. È sempre, e comunque, storia incompiuta." Quella lunga marcia verso l'Europa federale di Arturo Colombo E' il 19 agosto 1949: sul "Giornale di Trieste" Spadolini pubblica un articolo dal titolo "L'unità europea". Ha appena venticinque anni, e per parlare dell'esigenza di costruire un'Europa unita, prende spunto da un volume appena tradotto presso le Edizioni di Comunità, di cui Adriano Olivetti era magna pars: il volume di Kenneth C. Wheare, "Governo federale", un testo destinato a diventare una specie di lettura obbligata per tutti i federalisti (ricordo fin dai primi anni '50 quanto lo raccomandasse anche Altiero Spinelli, e poi Mario Albertini). Passano pochi mesi, e stavolta sul "Messaggero" Spadolini torna a parlare dell'idea di Europa, segnalando un altro libro, stavolta l'autore è Carlo Curcio, su "Nazione, Europa, Umanità". Da allora ininterrottamente, per quasi mezzo secolo il tema della lunga marcia verso un'Europa federale, verso gli "Stati Uniti d'Europa" (secondo la famosa immagine di Cattaneo, tanto cara alla scuola repubblicana) trova in Spadolini un sostenitore tenace, di cui dà testimonianza nei due campi distinti, eppure complementari dove saprà lasciare il segno della sua personalità. Come studioso, come storico, attento a recuperare i grandi temi-chiave, specie del XIX e del XX secolo, l'importanza dell'Obbiettivo Europa spicca in molti dei suoi libri, che ne hanno fatto uno dei principali interpreti della storia contemporanea. Basterebbe riaprire le pagine dedicate a "Gli uomini che fecero l'Italia", per accorgersi dell'attenzione riservata a quelli che Carlo Sforza chiamava i "costruttori dell'Europa". Ma sullo stesso tema restano innumerevoli gli interventi di Spadolini anche in contesti culturali fuori del nostro Paese. Ne ricordo solo due, di rilevante importanza. A Berna, nell'aprile del 1984, quand'era andato a ricordare i centocinquant'anni della fondazione della "Giovine Europa", fondata da Mazzini e da altri esuli italiani, tedeschi e polacchi col proposito di realizzare attraverso un'originale federazione dei popoli europei i tre obbiettivi contenuti nel manifesto istitutivo: "Libertà Eguaglianza - Umanità". L'anno dopo, nell'ottobre dell'85, a Madrid, al congresso promosso dall'associazione "El Espacio Cultural Europeo" (c'erano con lui anche Rosario Romeo e Girolamo Arnaldi), quando aveva spiegato che l'Europa "nasce nel Settecento come identità continentale e come principio di organizzazione dei popoli, nel clima del cosmopolitismo e dell'illuminismo". Ma è soprattutto quando, impegnato nell'attività politica dal 1972, Spadolini assume dirette responsabilità sia ai vertici di governo, sia come "uomo delle istituzioni" (con una definizione che molto gli piaceva), che la sua strategia non dimentica mai il fondamentale "ancoraggio" all'Europa. E' un principio-guida, una simbolica bussola, che non aveva solo imparato da storico, studiando Mazzini, ma che aveva ereditato da Einaudi, e poi aveva approfondito sulle pagine della "Nuova Europa" di Luigi Salvatorelli, e aveva sempre condiviso con Ugo La Malfa, quando fin dagli anni '50 ripeteva che dovevamo "aggrapparci all'Europa", se non volevamo "precipitare nel Mediterraneo", magari con pericolose attrazioni "terzomondiste"... Certo, soprattutto nel periodo terribile segnato dai cupi "anni di piombo" e dal dilagare del terrorismo, non sempre l'Europa aveva saputo darsi una voce unitaria anzi, nei paesi del vecchio Continente avevano spesso finito per prevalere ambigui revivals, magari camuffati da presunti interessi nazionali. Eppure, Spadolini aveva le idee ben chiare, e ripeteva che "il problema fondamentale della battaglia europeista era, ed è ancora oggi, il problema di creare una volontà politica comune del vecchio continente: attraverso quelle istituzioni sovranazionali che sono scaturite dai trattati di Roma ma che dovranno essere completate e riformate lungo la prospettiva dell'Europa federale, fondata su un governo europeo". E in effetti, non solo quand'è stato presidente del consiglio nell'81-82 ma soprattutto quando ha ricoperto l'incarico di ministro della difesa dall'83 all'87 (erano anni di tensione lacerante, di cui forse abbiamo perduto memoria), il binomio "Italia - Europa" non ha rappresentato per Spadolini il solito omaggio formale, cui troppe volte siamo stati abituati. Al contrario, come credeva essenziale il rapporto con gli Stati Uniti, così un più incisivo ruolo dell'Europa ha costituito per lui un riferimento costante, sempre ribadito anche a livello internazionale, nella consapevolezza che al giorno d'oggi nessun sistema democratico riesce a sopravvivere, a consolidarsi, a crescere se non sa inserirsi in una concreta "dimensione continentale", come avevano ripetuto già all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale quelli che considerava autentici europeisti e federalisti, da De Gasperi a Jean Monnet, da Sforza a Schumann, da Spinelli a Silone, da Ernesto Rossi a La Malfa. "La tematica dell'Europa federata è peculiare alla sinistra democratica, un po' repubblicana, un po' radicale, un po' socialista" aveva spiegato, parlando a Milano, davanti a quella stessa casa di via Poerio 37, dove nell'agosto del 1943 era stata fondato il Movimento Federalista Europeo. Ma non aveva mai dimenticato il nesso inscindibile fra le prospettive politiche e le radici storico-culturali dell'Europa. Tant'è vero che più tardi, il 16 gennaio dell'89, parlando a Firenze nell'Aula Magna della "sua" Università, aveva concluso con parole che oggi nel decennale della scomparsa possiamo anche rileggere come la rinnovata testimonianza di un suo messaggio ideale: "L'Europa a cui noi pensiamo ribadiva Spadolini è l'Europe raisonnable, di cui per primo parlò Voltaire, l'Europa che sorse duecento anni fa con la grande Rivoluzione, prologo del Risorgimento nazionale, l'Europa che vorremmo fino in fondo nostra, della cultura e della ragione". Le molte affinità che lo legavano a Croce di Luigi Compagna Da Ugo La Malfa, che proprio col titolo "L'altra Italia" nel 1975 aveva raccolto in volume alcuni suoi scritti e discorsi, Giovanni Spadolini aveva ereditato questa immagine-simbolo. Ma costruire un'altra Italia non significava affatto fare tabula rasa di quella che Spadolini chiamerà (con un sottinteso provocatorio e polemico) la Prima Repubblica. Senso dello Stato, senso dell'Italia, senso della storia sempre lo avrebbero portato a distinguere colpe e meriti degli uomini, risorse di flessibilità ed insufficienze di rigidità delle istituzioni. Soprattutto nei primi anni 90, il monito di Croce alla Costituente in difesa dell'"unità statale" e dell'"unità nazionale" gli sarebbe parso "oggi più attuale che mai". Intellettuale, giornalista, statista naturaliter crociano, aveva incessantemente riconosciuto "Il debito con Croce", di tutta la sua generazione, di tutto il suo mondo. Nel trentennale delle morte di Croce, due grandi amici di Spadolini, Lucio Colletti e Rosario Romeo, avevano riproposto in un dibattito su "Mondo Operaio" la tormentata questione della "egemonia culturale" esercitata da Croce. Romeo accettava il termine che era caro a Gramsci, ammetteva che l'egemonia c'era stata, che si era prolungata nel lungo dialogo filosofico fra Croce e Gentile, che si era estesa a tutte le forme di provincialismo, che certamente aveva comportato pedaggi pesanti, come la sottovalutazione della scienza o anche il disconoscimento delle scienze sociali. Ma nei confronti di quell'egemonia, avrebbe notato Spadolini su "La Stampa" prima e sulla "Nuova Antologia" poi, il grande debito con Croce devono sentirlo soprattutto i non crociani, tutti coloro che ne respingono il peso dottrinario. Il suo Croce era soprattutto l'ultimo, quello che il 18 marzo del 1949 a Napoli si era rivolto ai giovani dell'Istituto di Studi Filosofici con queste parole: "... non andate in cerca della verità, né del bene, né del bello, né della gioia, in qualcosa che sia lontano da voi, distaccato e inconseguibile, e in effetti inesistente, ma unicamente in quel che voi fate e farete, nel vostro lavoro nel cui fondo c'è l'Universale di cui l'uomo vive; e per chiudere con un motto bizzarro ma profondo, che soleva ripetere un dotto tedesco, o se si vuole ebreo-tedesco, altamente benemerito degli studi, il Wartburg, tenete sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare". Dio è nel particolare. Anche per Spadolini era così. La sua laicità stava tutta in questa convinzione, vissuta nella insondabile fedeltà a quel Dio che Croce, che come tutti i veri credenti, non volle mai nominare invano. |