L'intervento del presidente del Pri alla Camera/Peccato originale commesso dall'Ulivo Maggioranze prepotenti e Bicamerali che naufragarono Intervento dell'on. Giorgio La Malfa alla Camera, 15 settembre 2004, su "Disegno di legge costituzionale: modificazione di articoli della parte seconda della Costituzione". di Giorgio La Malfa Signor Presidente, onorevoli colleghi, il primo dato politico che bisogna registrare nello svolgimento di questo dibattito è il clima nel quale esso si è svolto. È un'osservazione che in un certo senso appare sorprendente rispetto alle polemiche che hanno accompagnato tutte le discussioni di carattere costituzionale che si sono svolte in questa legislatura. Il dibattito che si è svolto in questi giorni, gli interventi dei colleghi della maggioranza ma, soprattutto quelli dell'opposizione, compreso l'ultimo da parte del leader del gruppo dei Democratici di sinistra, l'onorevole Fassino, oggi, indicano che si è realizzato il clima migliore che si possa determinare in una discussione così complessa come quella inerente una riforma costituzionale, nel senso che i contrasti, le contrapposizioni e le diverse impostazioni sono tuttavia presentate - come peraltro esse sono - come un riflesso di scelte politiche che però non investono i fondamenti stessi della convivenza nazionale. Se il Parlamento riuscirà a mantenere questo clima costruttivo nell'esame degli emendamenti e nel successivo iter di questa riforma, a me pare molto incoraggiante. Dico ciò dal punto di vista di una forza politica, quella repubblicana, che ha sempre guardato con una certa preoccupazione al tema delle riforme costituzionali. In questa lunga fase, ormai ventennale, il Parlamento, prima del 1992 e dopo, si è impegnato in varie forme per affrontare il tema, dalle Commissioni Bozzi, Iotti, fino alla Bicamerale dell'onorevole D'Alema. Tuttavia, noi abbiamo sempre guardato con una certa preoccupazione, anzi, con molta preoccupazione, al processo di riforma costituzionale. In realtà, la Repubblica aveva - ed ha - una Costituzione che io considero eccellente e i difetti di funzionamento delle istituzioni nel nostro paese (soprattutto, il difetto di funzionamento dei Governi) non ho mai pensato che nascessero dalle regole costituzionali. Ho sempre pensato che i problemi della vita italiana, che hanno reso difficile la vita del nostro paese, fossero figli delle condizioni politiche del dopoguerra italiano e, in particolare, derivassero dalla ristrettezza dell'arco delle forze utilizzabili per formare i Governi, dalla ristrettezza dell'arco politico costituzionale, se vogliamo così chiamarlo. L'Italia ha sempre avuto un bipolarismo nella sua vita politica: come tutte le grandi democrazie dell'Occidente, l'ha sempre avuto. Quello che l'Italia non poteva avere, e non ha avuto in larga parte del dopoguerra, è stata l'alternanza delle forze politiche al Governo. Ciò costituiva un'eredità della prima parte del secolo: il Partito comunista, da una parte, ed il Movimento sociale, dall'altra, rendevano sostanzialmente inevitabile la collaborazione di forze prima nel centrismo e, poi, nel centrosinistra. L'instabilità politica e la debolezza dei Governi rispetto al Parlamento nascevano da questo problema politico, non da un problema costituzionale. Nascevano dal fatto che, quando si aveva la necessità di esprimere un cambiamento a causa di una diversa sensibilità dei problemi da parte dell'opinione pubblica, l'unica cosa che si poteva fare era quella di combinare in maniera diversa le stesse forze politiche, le quali erano "condannate" alla collaborazione perché non era possibile optare per alternative che avrebbero messo in questione la politica estera e la storia del nostro paese. Eppure, prima che il sistema cambiasse (per effetto del cambiamento storico dovuto alla caduta del comunismo ed a tutto ciò che ne è seguito), già si erano avuti - pur nell'ambito di quel vecchio sistema - fenomeni di maggiore stabilità: il Governo Craxi durò quattro anni, quasi un'intera legislatura; inoltre, la legislatura che fu largamente dominata, diciamo così, dal Governo dell'onorevole Andreotti, quella del 1992, fu una legislatura integrale. Invece, dopo il 1968 l'Italia aveva avuto sempre legislature accorciate. Quindi, anche quella vecchia Costituzione cominciava a produrre la stabilità dei Governi e delle legislature, sebbene il sistema fosse molto diverso. Inoltre, in quella Costituzione vi era un modello regionalista aperto ad un'evoluzione che poteva essere stimolata, proseguita ed approfondita. Per queste ragioni, abbiamo guardato con molta preoccupazione a quest'idea secondo la quale, poiché i problemi italiani erano non di carattere politico, ma costituzionale e istituzionale, era necessaria una grande riforma di carattere costituzionale. Se non cambiamo la natura dei rapporti politici nell'ambito della società italiana e la natura dei grandi partiti politici - mi sono sempre detto - non avremo un cambiamento sostanziale: cambiare le istituzioni senza cambiare la cultura delle forze politiche e la possibilità di utilizzarle nella forza di Governo può essere un rischio. Abbiamo preso l'altra strada, quella delle riforme istituzionali: cerchiamo almeno di condurre avanti il discorso nel modo migliore! Ponendomi in quest'ottica, affronterò subito uno dei temi che, in questi giorni, hanno proposto alla nostra attenzione l'onorevole Violante ed altri autorevoli colleghi. Il tema, che ritorna, è quello dell'Assemblea costituente o, comunque, di un'Assemblea chiamata a riesaminare una parte della Costituzione. Ho sempre considerato tale proposta insoddisfacente e pericolosa. Intanto, perché un'Assemblea costituente rimette in questione la Costituzione in quanto tale senza che si sappia se si disporrà mai di una proposta idonea. In secondo luogo, onorevoli colleghi, l'Assemblea costituente presuppone un dato politico di fondo: un Governo di unità nazionale. Non possiamo dimenticare, infatti, che il successo dell'Assemblea costituente nell'immediato dopoguerra fu dovuto al fatto che essa poggiava su un Governo di unità nazionale. Vero è che, poi, le circostanze politiche indussero l'onorevole De Gasperi alla rottura di quell'unità. Tuttavia, nel momento in cui tale rottura si verificò, la parte fondamentale del lavoro era stata impostata, e resistette all'urto politico perché quelli erano anni diversi, perché uscivamo dalla guerra, perché uscivamo dalla lotta di liberazione. Al contrario, non ha fondamento l'idea secondo la quale i lavori di un'Assemblea costituente possono svolgersi proficuamente in una condizione in cui la lotta politica si svolge tra una maggioranza ed un'opposizione che si pongono come alternative. Questo errore ha condannato al fallimento la Bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema, alla quale ha accennato, nel suo intervento, anche il collega Fassino. L'onorevole Fassino ha affermato che allora fu l'onorevole Berlusconi a sottrarsi alle conclusioni cui peraltro si stava arrivando con riferimento sia al Titolo V sia ad altre materie. Il problema è che all'accordo raggiunto tra il centrodestra e il centrosinistra di costituire una Commissione bicamerale, in un certo senso era sottesa l'idea che, nell'autorevole sede della Bicamerale, si potesse raggiungere un'intesa politica che in quel momento molti di noi consideravano essenziale di fronte ai problemi del paese, dinanzi al compito che appariva difficilissimo di realizzare le condizioni per non essere esclusi dall'Europa monetaria. Quando all'inizio di quella legislatura vidi nascere la Bicamerale, conclusi che probabilmente sarebbe stato lo strumento con il quale le grandi forze politiche (Forza Italia e i Democratici di sinistra, per citare le maggiori) avrebbero preparato la via per gettare le basi di un accordo politico necessario ai fini del risanamento economico del paese. E, a mio avviso, non è un caso che tra i maggiormente contrari all'idea della Bicamerale vi era il professor Prodi, allora Presidente del Consiglio, per il quale se la Bicamerale avesse raggiunto intese sostanziali, probabilmente avrebbe prefigurato una formula diversa dalla formula di quel Governo. Se si va all'origine del conflitto che minò la compattezza del centrosinistra in quella legislatura troviamo la Bicamerale e l'accordo fatto a casa dell'onorevole Gianni Letta sulla legge elettorale. La condizione per il successo di un'Assemblea costituente è che le grandi forze politiche che convengono sulle riforme costituzionali siano anche pronte a governare il paese. Se le forze politiche convengono sulle grandi riforme costituzionali, a maggior ragione possono convenire sulla politica dell'ordine pubblico ed economica, materie per certi aspetti di minore rilevanza politica rispetto ai fondamenti della Costituzione. Nel momento in cui il centrosinistra riuscì ad affrontare il problema economico (è un riconoscimento che va dato) senza il concorso dell'opposizione, con le proprie forze, cadde l'idea della riforma costituzionale. A quel punto, è nata l'idea di procedere da soli. In questo caso l'errore fatale lo ha compiuto il centrosinistra. L'onorevole Violante, nel corso del suo intervento, ha dichiarato che riconoscono di aver commesso un errore. Ma sfortunatamente in politica, onorevole Violante, gli errori non si cancellano solo perché vengono riconosciuti. Gli errori producono precedenti e in politica la cosa più grave è creare un precedente. Costituisce un precedente stabilire che una maggioranza ristretta possa affrontare il problema costituzionale nonostante il contrasto molto forte di metà del Parlamento. Oggi, voi dite all'opposizione di avere un atteggiamento comprensivo perché le riforme devono essere fatte insieme. Ma se non sono state fatte insieme alla fine di una legislatura con una maggioranza ristretta, come fa il centrodestra oggi a sostenere che deve avere il consenso dell'opposizione? È già molto che si stia creando un clima nel quale il dissenso non investe i fondamenti, nel quale non ci si scambia l'accusa di voler distruggere i fondamenti della convivenza, ma si discute sui modi migliori di affrontare la situazione. Mi auguro che si chiuda il capitolo costituzionale. Mi auguro che questa riforma, su cui nutro molte riserve che esprimerò tra breve, si concluda. Se nella prossima legislatura dovesse cambiare la maggioranza, mi auguro che le modificazioni che la futura maggioranza introdurrà non siano radicali del testo costituzionale. Da questo punto di vista mi sembra positivo l'atteggiamento della Commissione, del relatore, onorevole Bruno, del ministro delle riforme istituzionali, ossia quello di cercare di cogliere negli emendamenti e nelle posizioni dell'opposizione la più gran parte dei contributi possibile. Infatti, se questa riforma costituzionale, con tutte le riserve che io posso avere, nasce, non da un disegno totalmente condiviso, ma da contenuti che riflettono anche le preoccupazioni dell'opposizione, nella prossima legislatura l'eventuale lavoro di ulteriore revisione costituzionale potrà essere limitato, come spero. Da questo punto di vista, confesso che avrei preferito, lo dico con grande chiarezza, che ci fossimo limitati a correggere il Titolo V, intervenendo sui temi che il centrosinistra aveva affrontato - con molte riserve sul modo con cui lo aveva affrontato - limitandoci a quello. In realtà, io considero la parte migliore del lavoro che noi stiamo per affrontare proprio la revisione del Titolo V. Il nuovo testo dell'articolo 120 va incontro a talune preoccupazioni che tutti noi abbiamo avuto; quando si dice che il Governo può prendere l'iniziativa e il Parlamento può fare un'azione legislativa nell'interesse nazionale, correggendo, se necessario, decisioni dei comuni, delle province, delle regioni, sul terreno degli interessi nazionali, anche di quelli dell'unità economica del paese, si dice qualcosa di molto importante. Se noi potessimo cambiare quell'articolo 114 scritto dal centrosinistra, in cui si dice che la Repubblica è costituita da comuni, province, città metropolitane e dallo Stato, se si potesse stabilire che la Repubblica è lo Stato, se si potesse scrivere un testo in cui non ci fosse questa distinzione, correggendo una cosa sbagliata, sarebbe molto positivo. Ho molte riserve, lo dico all'amico e collega Donato Bruno, sul Senato federale. Debbo dire che non sono particolarmente attaccato all'idea di un bicameralismo perfetto, che in un certo senso è una contraddizione in termini, ma ho molta paura di una situazione nella quale la Camera faccia un lavoro e il Senato ne faccia un altro, ho molta paura che il Senato e la Camera possano trovarsi in contrapposizione. Inoltre, ho molte riserve sul premierato. Devo dire con molta chiarezza che non ho sottoscritto la nuova formulazione dell'articolo 92 (anche se il mio partito mi ha chiesto di firmare - e io l'ho fatto volentieri - il complesso degli emendamenti, che la maggioranza ha presentato questa mattina). Trovo questa formula costituzionale, secondo la quale ci dovrà essere una legge elettorale che consenta di collegare le liste al nome del candidato, una soluzione molto ibrida e molto pasticciata. Esistono due modelli di rapporto tra i cittadini, il Governo e il Parlamento: il modello americano o il modello europeo continentale (chiamiamoli così). Quello americano presuppone che i cittadini scelgano il capo dell'esecutivo, ma la Camera e il Senato o l'organismo unicamerale sono autonomi e costituiscono un contrappeso - come in Montesquieu - nel rapporto di potere. Nel modello europeo c'è un rapporto di fiducia che lega il Governo al Parlamento; questo rapporto di fiducia può essere rafforzato mediante i meccanismi tedeschi costituzionali, ma il Governo risponde davanti al Parlamento ed è sempre responsabile davanti ad esso. Non possiamo creare una condizione - ed è l'aspetto su cui spero che i colleghi, il Comitato dei nove, il relatore, possano apportare dei miglioramenti - per la quale la Camera dei deputati sia totalmente dipendente dal Governo eletto dai cittadini e il Senato sia totalmente indipendente dal Governo eletto dai cittadini, cioè che ci possa essere un meccanismo americano per quanto riguarda il Senato e un meccanismo di sudditanza della Camera. Trovo che questa sia una soluzione molto pericolosa e pasticciata. Credo che non sia possibile tornare indietro, perché in un certo senso capisco la logica di questa impostazione. D'altra parte i colleghi dell'opposizione condividono l'idea che si debba scrivere in Costituzione l'alternanza. Dai discorsi che ho sentito fare a D'Alema, a Violante, emerge l'idea che la Costituzione debba in un certo senso garantire il valore dell'alternanza, che io credo sia un valore naturale della vita, ma penso anche che ci possano essere dei momenti in cui il Parlamento possa decidere che al posto dell'alternanza necessaria ci sia la solidarietà nazionale, per esempio, se le condizioni del terrorismo internazionale dovessero peggiorare, se ci fossero situazioni molto gravi (speriamo che non si verifichino). Ci potrebbero essere condizioni tali da spingere un Governo, pur eletto da una parte dei cittadini, ad andare davanti al Parlamento per dire che ha bisogno dell'accordo di tutti. Anche la grande Inghilterra, il cui fondamento è l'alternanza, quando vi sono stati alcuni momenti storici, come ad esempio durante la seconda guerra mondiale, ha potuto costituire un Governo di unità nazionale. Potremmo fare, onorevole Bruno, un Governo di unità nazionale sulla base dell'esperienza del 1992, oppure violeremmo la Costituzione se ci fossero la condizioni politiche che ci impongono di farlo? Ribadisco che credevo vi fosse la necessità di costituire un esecutivo di unità nazionale nel periodo 1997-1998; sono stato lieto di constatare che non era necessario, vale a dire che vi era la forza per avviare il risanamento economico con la sola maggioranza semplice. Tuttavia, dovremmo prendere in considerazione tale aspetto: dobbiamo per forza scrivere nella Costituzione che il Parlamento deve essere necessariamente diviso, oppure vogliamo lasciare almeno la possibilità di intraprendere una strada che ci potrebbero imporre le circostanze storiche? Ho letto oggi un editoriale molto interessante, scritto dal professor Luciani, sulla Stampa di Torino, in cui egli collega il tema in discussione con la lotta al terrorismo, sostenendo che le riforme istituzionali bisogna collocarle nella realtà di questo secolo, che è una realtà di lotta contro il terrorismo. Ho riflettuto a lungo su tale considerazione, e la ritengo fondata. In altre parole, vorrei invitare a non darci regole così vincolanti, che si rivelerebbero inadeguate di fronte ad una condizione di difficoltà del paese. Queste sono le mie considerazioni. Naturalmente, il mio gruppo parlamentare non è determinante ai fini dell'approvazione di questo disegno di legge di riforma; quindi, con queste considerazioni, mi limito ad indicare sia le preoccupazioni che ci hanno mosso in passato, sia quelle che attualmente nutro. Concludo il mio intervento dicendo che il fatto che il clima politico nel quale si svolge il nostro dibattito sia così profondamente cambiato, perlomeno attenua di molto le nostre preoccupazioni. |