Contro la Finanziaria cresce uno scontento generalizzato perché non sono credibili i provvedimenti adottati/Le misure si basano su dati artefatti della realtà italiana. I progetti di Padoa-Schioppa e Visco finiranno per avere effetti depressivi sull'economia

Come aumentare la burocrazia e trascurare le Regioni del Mezzogiorno

di Gianfranco Polillo

Criticare la "finanziaria", ormai, è come sparare sulla Croce rossa. Nessuno, salvo Eugenio Scalari e la CGIL, la difende. Nessuno ne sostiene le ragioni. Al contrario un coro di critiche ed un diluvio di rimproveri. Intere categorie in lotta. Professionisti bistrattati. Managers e dirigenti in profonda crisi di identità. Lo stesso popolo di sinistra guarda esterrefatto e inonda i propri santuari ideologici – "La Repubblica" in testa – di lettere, fax ed e-mail per esprimere il proprio disappunto. Mal comune mezzo gaudio: come cercano di giustificarsi Tommaso Padoa Schioppa e Vincenzo Visco? Non scherziamo. Un'opposizione così diffusa e generalizzata non si era mai vista. Essa abbraccia intellettuali e tecnici. Ceti popolari e semplici massaie. Giovani professionalizzati e disoccupati. Scalpita il Centro-nord, mentre il Mezzogiorno – la vittima principale del mancato sviluppo italiano – è costretto a fare i conti con le promesse, diffuse a piene mani nel programma elettorale dell'Ulivo, e già disattese nei primi atti del nuovo Governo.

Uno scontento così generalizzato richiede una qualche spiegazione. Eccesso di egoismo? Incapacità di vedere un barlume di primavera dopo il necessario inverno? Rifiuto di contribuire al risanamento del Paese? Indubbiamente questi sentimenti sono presenti, ma non è questa la chiave per comprendere le ragioni di fondo di una protesta così diffusa e radicale. Essa trae origine soprattutto nella non credibilità di una manovra costruita su dati artefatti della realtà italiana. Il teorema che doveva sorreggerla è la crisi del Paese. Un'economia allo stremo. Una crisi finanziaria senza prospettive. Un baratro in cui rischiava di perdersi gran parte della società italiana. Non era stato questo il leit motif che aveva accompagnato la campagna elettorale dell'Ulivo? E di questo schema ideologico il Governo è rimasto prigioniero. Come spiegare altrimenti il richiamo alla crisi del 1992, più volte evocata dal ministro per l'economia? O lo spettro del default argentino, di cui ancora qualche giorno fa ha parlato il Vice ministro Visco?

La ripresa economica

Quelle immagini erano e sono semplicemente il frutto di una costruzione retorica, incapace di cogliere gli elementi di novità di un Paese che, nonostante tutto, non si è seduto. Non ha tirato i remi in barca. Al contrario, nonostante una crisi strutturale profonda e dagli incerti approdi, si sta dando da fare per arginare il peggio e sperare in un domani migliore. Che non potrà arrivare se il processo non sarà guidato con intelligenza e determinazione. Se l'azione di Governo, invece di andare contro tendenza, non riuscirà a convogliare quella spinta verso obiettivi di riforma e di crescita economica. Eccesso di ottimismo? Sono i dati che ci danno ragione. A marzo pensavamo che il PIL, quest'anno, fosse cresciuto solo dell'1,3 per cento. A luglio abbiamo rivisto le previsioni all'1,5 per cento. Ora siamo già all'1,7. Domani non sappiamo. Anche se dovremo tener conto dell'azione poco felice del Governo e del suo impatto negativo sulle aspettative di crescita del Paese.

La crisi finanziaria

Altro dato drammatizzato oltre misura. A marzo avevamo previsto un deficit pubblico pari al 3,8 per cento. A luglio, a seguito di un'improvvida due diligence, le previsioni erano divenute più cupe, nell'indicare una soglia che avrebbe superato il 4,1 per cento. Poi il DPEF ha mitigato il pessimismo, riportando l'asticella al 4 per cento. Per poi farla scendere ancora, nella successiva nota di aggiornamento, al 3,6 per cento. Ultimo dato confortato dalle analisi della Relazione revisionale e programmatica. Nel frattempo, tuttavia, l'ISTAT certificava, andando quindi oltre il terreno scivoloso delle previsioni, per il primo semestre di quest'anno, un deficit pari al 2,8 per cento del PIL. Dato che dimostra la robustezza di un risanamento avviato, anche se non concluso. Merito soprattutto della capacità degli italiani di reagire positivamente ai morsi della crisi.

La manovra straordinaria

Di questo scenario in movimento, la manovra del Governo non ha tenuto alcun conto. Ci si è invece comportati come se fossimo al 1992, con un intervento che, anche nelle cifre, richiama quel lontano periodo. Ed ora come allora è stato un diluvio di tasse e di balzelli che avranno come unica conseguenza quella di far abortire una ripresa, anziché consolidarla. Un'azione ingiusta e poco rispettosa. Ingiusta perché i risultati, in termini di maggiore equità, sono risibili. Secondo i calcoli della Banca d'Italia, il beneficio per i redditi più bassi (9.000 – 15.000 euro) non supererà i 150 euro all'anno: poco più di 10 euro al mese. Al lordo tuttavia del maggior carico contributivo e del fiscal drag, che ogni anno riduce i redditi netti ed impingua le casse dello Stato. Poco rispettosa perché non tiene conto dello sforzo fiscale, sostenuto spontaneamente dalla stragrande maggioranza dei contribuenti. E' di circa 30 miliardi di euro il bonus che l'Erario si appresta ad incassare nel prossimo anno. Solo in minima parte (poco più di 6 miliardi) conseguenza del decreto legge Visco - Bersani, le maggiori entrate fiscali sono il frutto della ripresa economica e di una strategia volta a tratteggiare un fisco più amichevole e non animato da spirito di rivalsa. Un fisco che, negli anni passati, aveva dato molto, sotto forma di condoni. Ma preteso altrettanto. Spingendo il contribuente all'auto denuncia, l'aveva, al tempo stesso, portato ad emergere. E quindi a comportarsi di conseguenza nel successivo esercizio finanziario. Tutto questo rischia oggi di svanire come un miraggio nel deserto. Il fisco di domani somiglierà sempre più al grande fratello di Orwell. Regole minuziose e penetranti. Adempimenti amministrativi cervellotici. Costi di gestione sempre più elevati per districarsi nelle centinaia di norme varate dalla fertile fantasia dei nuovi burocrati di Stato.

Una contabilità schizofrenica

Sono 217 gli articoli del disegno di legge della Finanziaria. Ad essi si aggiungono i 48 del decreto legge. Quindi la delega fiscale, da cui scaturiranno pagine e pagine di norme nei successivi decreti legislativi. Un diluvio di disposizioni da far impallidire lo stesso Noè. Il Parlamento, a cominciare dai suggerimenti impropri dei singoli ministeri, ci metterà del suo moltiplicando i volumi legislativi come in un gioco di specchi. Il risultato faticoso di questo inutile – lo vedremo tra un attimo – processo saranno tomi di norme con relativi adempimenti amministrativi da richiedere eserciti di consulenti, fiscalisti, commercialisti. Ossia l'ausilio di quegli stessi soggetti contro i quali il Governo ha scatenato la Vandea dei propri supporters. Una giungla sempre più intricata ed inestricabile su cui far sventolare il finto bandierone della semplificazione amministrativa. Che una specifica commissione, sempre prevista in Finanziaria, dovrebbe disboscare. Il ridicolo, o meglio il tragico, della situazione è così evidente da non richiedere ulteriori commenti.

Ma qual è l'utilità di questa barocchismo? Le norme che contano, ai fini del risanamento finanziario, si contano sulle punta delle dita. Sono appena 6 gli articoli ai quali è affidato l'effettivo contenimento del deficit, che vale per Maastricht. Da essi derivano maggiori entrate per circa 10 miliardi di euro, che da soli fanno l'80 per cento circa dell'intera manovra. Sono le norme sulla previdenza quelle da considerare. Esse prevedono un forte aumento dei contributi sociali ed il trasferimento del TFR dalle imprese all'INPS. Da queste maggiori entrate, acquisibili con immediatezza, deriva il contenimento dello squilibrio previdenziale e con esso una corrispondente riduzione del disavanzo pubblico. Volendo, quindi, si poteva fare una finanziaria snella, com'era nell'auspicio del legislatore, quando modificò la legge 468 del 1978, che sorregge proceduralmente l'iter parlamentare della legge finanziaria. Si è seguita, invece, la strada opposta. E la scelta non è casuale.

Non è casuale, perché lo spirito effettivo della proposta governativa non è la riduzione della spesa, ma il suo aumento. Lo dimostra l'analisi attenta dei documenti di bilancio. Il Governo aveva ereditato dalla precedente legislatura un deficit dello Stato pari ad appena 3.886 milioni di euro. Un'inezia. Tant'è che il decreto Visco Bersani aveva potuto facilmente farvi fronte, trasformandolo in un surplus di 3.930 milioni. Il merito era stato soprattutto dei governi precedenti. Dal 1996 ad oggi, infatti, la spesa dello Stato centrale era diminuita di circa 2 punti di PIL, mentre era più che aumentata (+ 2,7 punti) quella degli Enti locali: regioni, province e comuni. Oggi questo andamento virtuoso si inverte. La finanziaria aumenta, infatti, la spesa dello Stato centrale di 26.371 milioni di euro, ricreando un deficit – il saldo netto da finanziare – di 22.400 milioni. E senza diminuire significativamente quella locale.

Insomma, la finanziaria, con una mano dà e con l'altra toglie. Riduce il deficit da contabilizzare ai fini di Maastricht, aumenta quello sommerso a carico del bilancio dello Stato. Va da sé che, nei prossimi anni, questa cambiale andrà comunque onorata. Ma saranno, forse, altri a gestirne le relative pene. Fosse almeno un deficit che dà forza alla ripresa. L'analisi dettagliata delle mille disposizioni di legge è, invece, un grande minestrone. Si va da una distribuzione erratica degli sgravi fiscali, all'incentivazione di alcuni consumi (la rottamazione dei frigoriferi e le palestre), al sostegno – questo giusto – degli investimenti. Il tutto, però, senza un'intima coerenza, ma con una distribuzione a pioggia sagomata sui presunti interessi del frastagliato blocco sociale che sostiene la maggioranza parlamentare. Ne risulta un gioco a somma zero. Anzi negativo, come dimostrano le proteste messe in atto dagli stessi presunti beneficiari delle striminzite provvidenze.

Alla base di tutto emerge con forza il limite, non solo politico ma culturale, di questa maggioranza. Un impianto normativo così esteso non vuole soltanto travolgere quanto realizzato nella passata legislatura. Ma rendere visibile una profonda discontinuità: parola magica usata per portare a termine uno spoil system radicale della precedente dirigenza pubblica. Una sorta di rivoluzione, che si risolve nel suo contrario ed assume le caratteristiche del Concilio di Trento e della sua controriforma. Errore tipico di ogni giacobinismo che vorrebbe cambiare il normale corso della vicenda storica con l'intuizione illuministica di un "meglio che è sempre nemico del bene". Sostituire la norma al mercato, imporre dall'alto modelli di vita e di consumo. Valga per tutti l'esempio dei SUV, che pure non amiamo. Far piangere i ricchi, senza aiutare i poveri. Questo è l'impianto culturale che giustifica ampiamente quel reticolo di norme che connota la legge finanziaria. Dove c'è tutto, ma manca l'essenziale.

Il grande assente

Luigi Spaventa, in un bell'articolo su "La "Repubblica", paragonava questa finanziaria ad un'autostrada a tre corsie: risanamento, equità, sviluppo. Salvo poi dover ammettere che l'ultima corsia era interrotta. E che di sviluppo si parlerà, forse, in una diversa occasione. Non è una critica da poco. Non lo è se consideriamo il quadro macro-economico da cui siamo partiti. Esiste una ripresa spontanea dell'economia italiana. Fragile ed incerta. Andava quindi sostenuta e rafforzata. La finanziaria tutto fa, di tutto si occupa, meno che di questo. Venendo meno, quindi, alla sua ispirazione originaria. Che, ancora oggi, dovrebbe giustificare i privilegi accordati dai regolamenti parlamentari a questa corsia preferenziale. Naturalmente, se non c‘è sviluppo; non c'è nemmeno benessere. Si può ridistribuire quello che si produce in più, non certo ritagliare sempre e solo la stessa torta. Perché alla fine le fettine più piccole andranno sempre a coloro che, nel Paese e nella società, hanno meno potere.

Questo è il caso, soprattutto, del Mezzogiorno. Dove le condizioni di vita sono quelle che sono. Dove la criminalità ha la forza che ha, fino a svolgere, quasi, un ruolo di supplenza. Dove le donne e le giovani generazioni sono costrette, pur di occuparsi, a lavorare in nero. Dove tutto rischia di regredire. Ebbene la chiave di emancipazione del Mezzogiorno è lo sviluppo, non l'elemosina del Centro. La finanziaria contiene norme specifiche, che ripropongono la fiscalità di vantaggio a favore di queste Terre. Sono sottoposte, tuttavia, ad una clausola sospensiva. Vale a dire il beneplacito della Commissione europea. Il responso sarà positivo? Ci auguriamo di sì, anche se non sottovalutiamo le difficoltà. Un conto sarebbe stato inserire questa proposta in una linea complessiva rivolta allo sviluppo. Un altro farne un fiore all'occhiello per dire che qualcosa si vuole fare per il Mezzogiorno. Con il retro - pensiero che saranno altri a negare anche questa piccola provvidenza.