"il Giornale" 25 maggio 2003/I figli d’arte della politica

"Anche mio padre starebbe con Berlusconi"

La Malfa, presidente del Pri: non avrebbe mai approvato questa sinistra antiamericana

di Giancarlo Perna

Pur essendo il cognome simbolo del repubblicanesimo italiano, i La Malfa sono una dinastia. Se dici La Malfa, ti chiedono: "Padre o figlio?". Se stai zitto, è lo stesso. Pensi a Giorgio e ricordi Ugo. Evochi Ugo e ti si sovrappone il broncio del figlio Giorgio. La Malfa I e II. E’ successo solo coi Savoia.

"Complimenti vivissimi", dico a Giorgio La Malfa di cui sono ospite nello studio di presidente della commissione Finanze di Montecitorio. il presidente del Pri è fresco reduce dalle celebrazioni per il centenario della nascita del padre e ancora in abito scuro da cerimonia.

"Dov’è il trucco?", chiede La Malfa che non si fida tanto di me, anche se diffida meno di un tempo.

"Parlo seriamente. In genere, se fanno lo stesso mestiere, o i figli oscurano i padri, tipo Carlomagno e papà Pipino, o sono i padri a sovrastare i figli, caso Segni. Voi siete invece un binomio equilibrato. Suo padre giganteggia, ma lei la sua parte l'ha fatta. Il testimone che le ha lasciato, lei lo ha tenuto" dico.

"Ha ragione di parlare di me al passato. Mi sento fuori dalla battaglia politica. Non sono più un protagonista. Mi appaga essere riuscito a tenere in vita il Pri. Scassato, ma c'è. Ho garantito il simbolo dell'Edera all'Italia che verrà", dice con foga. "Coraggio. A 63 anni si è solo dei ragazzi con esperienza. Ma perché si è dato tanto da fare per un partitino?", dico. Era una domanda qualsiasi, ma scatena La Malfa per venti minuti.

Riassumo lo straripamento. Il primo maestro di suo padre negli anni '20 fu Giovanni Amendola, poi ucciso a bastonate dai fascisti. Erano insieme nell'Unione Democratica Nazionale, antifascista, antimonarchica, liberale. Di questo nocciolo liberale - dice il figlio - Ugo La Malfa si è sempre sentito il portabandiera dopo che l'Unione si sciolse e per il resto dei suoi giorni. Ebbe un trauma quando i figli di Amendola aderirono al Pci clandestino, scegliendo il campo opposto. "Sono rimasto solo", disse Ugo. Durante la guerra entrò nel Partito d'Azione che aveva due anime, quella liberale della gente come lui e una socialista. Il Pd'Az non riuscì a conciliarle e sparì nel dopoguerra. Fu allora che Ugo fondò il Pri per tenere in vita i suoi principi.

"Ecco perché ho combattuto duro per conservare l'Edera. Specie negli anni ‘90 quando la rivoluzione giudiziaria travolgeva tutto. L'ho fatto anche a costo di umiliazioni", dice.

"Non mi sembra tipo da inghiottirle", dice, conoscendo La Malfa jr come spicciativo.

"Dopo un periodo di neutralità tra Ulivo e Polo, nel '95 schierai il Pri col centro sinistra. Lo feci per diversi motivi. Uno sugli altri: la speranza di riacciuffare la diaspora repubblicana. Nella confusione, alcuni erano finiti addirittura nei Ds", dice.

E le pecorelle smarrite?

"Risposero picche. Antonio Maccanico e Bruno Visentini dissero: "Il Pri non ha più senso, ci vogliono prospettive più ampie". Né ottenni di più con Giorgio Bogi e Steli De Carolis, già sistemati nei Ds. Comunque, fatto il passo, andai a trovare Massimo D'Alema che dei Ds era segretario".

Per sottomettersi?, chiedo.

"La sede era ancora le Botteghe Oscure. Entrai da lui e dissi: "Hai accolto con freddezza l'ingresso del Pri nell'Ulivo. Ma la sinistra non può essere fatta solo da Ds, cattolici e socialisti. I laici vi servono". Rispose: "Mi servono così tanto che quando il tuo prof. Visentini è venuto in questa stanza e mi ha chiesto la tessera ds, gli ho risposto: Professore, lei mi è più utile fuori". Nella sua voce c'era tutto il disprezzo possibile. Ho replicato: "In questa stanza io non entrerò più. né vivo né morto"".

E con lo screanzato non ha mai più parlato, dico.

"Purtroppo un'altra volta. Alle elezioni del '96, i due senatori eletti nelle liste del Pri si iscrissero subito al gruppo Ds. Incontrando D'Alema gli dissi. "Il Pri è tuo alleato. Perché ti prendi i suoi transfughi?". "Perché dovrei aiutare un morto?", rispose lui col solito tono".

Urpa, che iena. Ma sarà vero che Visentini, il Gran borghese, come lo lodava Eugenio Scalfari, volesse la tessera ds?. mi stupisco. "Temo di sì. Visentini non era un politico, ma un tecnocrate. Un politico deve sapere andare controcorrente e negli anni '90 era più facile allinearsi coi Ds. Prenda il caso mio...", dice.

Si allineò anche lei, saltò su.

"Le ho spiegato perché. Ho tenuto il Pri a sinistra finché l'Italia non è entrata nell'Euro. L'Ulivo di Romano Prodi dava più garanzie di Silvio Berlusconi che all'epoca criticava pesantemente l'Ue. Non era una scelta di schieramento, ma di programma. (Comunque, ho poi guidato il Pri verso il Polo", dice.

Il controcorrente di cui parlava prima.

"Non so se sia giusto stare con Berlusconi, ma ci vuole coraggio. Perché le nostre storie sono diverse e perché Berlusconi spacca in due il Paese. E io ho il fardello di mio padre", dice.

Bene, ma andiamo con ordine. Suo padre approverebbe?

"Era un'idealista realistico. Ha sempre collocato il Pri al fianco della Dc. Dialogava col Pci, ma in politica estera era occidentale. Non avrebbe potuto stare con questa sinistra antiamericana. Mai avrebbe detto che l'Ue è quella franco-tedesca. Diceva: "Se per fare l'Europa, dobbiamo lasciare l'Inghilterra, non vale la pena". Starebbe da questa parte anche per l'economia, se il governo attuerà il suo programma.

Non lo fa?

"Entrare nell'euro era necessario. Ma il rischio che non sia un buon affare, è fortissimo. L'Italia può diventare la periferia dell'Ue. Ci vuole la politica promessa da Berlusconi: investimenti pubblici e sgravi fiscali. Ma non l'ha realizzata, né vedo i sintomi".

Torniamo a Ugo. Che eredità lascia?

"Quella di una passione politica integrale, disinteressata al potere, attentissima ai problemi del Paese. Dalle celebrazioni del centenario, esce l'immagine di un combattente straordinario dai 22 anni alla morte".

A lei che resta?

"L'insegnamento di continuare fermamente la battaglia liberale del Pri".

Negli anni'60, suo padre fu tra gli statalizzatori dell'energia elettrica. Dirigismo puro.

"Tentò di irizzare, anziché nazionalizzare. Ma era il prezzo che il Psi imponeva per entrare nel centrosinistra e rompere col Pci. Morto De Gasperi che ammirava, mio padre diffidava dei successori, Fanfani ecc. Capì che il centrisrno era agli sgoccioli e voleva allargare l'area di governo".

Un liberale non flirta coi Pci come fece lui negli anni '70. Scrisse Montanelli: "Un pazzo va in giro per l'Italia, dice di chiamarsi La Malfa e vuole l'apertura ai comunisti". Gli voleva bene, ma era deluso.

"La Malfa non parlò mai di "compromesso storico". Preferiva "solidarietà nazionale" per combattere terrorismo e inflazione. Una necessità, non una formula".

Montanelli era suo grande amico?

"Si. Ma tre erano i più stretti. Adolfo Tino, con lui nel Pd'Az".

Lo zio di Maccanico.

"Sì e la ragione per cui io per Maccanico ho avuto un particolare affetto, non ricambiato. Per dargli un seggio a Milano, ho fatto grosse battaglie di cui mi pento. Oggi ricambio i suoi scarsi sentimenti".

Gli altri due?

"Enrico Cuccia e Raffaele Mattioli. Ha avuto anche un rapporto crescente con Aldo Moro".

Chiese la pena di morte per i suoi rapitori.

"La minaccia. Lo capì Donat Cattin col quale pure faceva liti tremende. Gli dava del peronista. Donat chiese in una lettera ai maggiorenti Dc di ascoltare La Malfa. Non si potevano liberare i terroristi in prigione, né corrompere le Br con danaro. L'unica era processare quelli in galera e minacciarli di morte. Minacciare, questo voleva La Malfa".

Che durezza.

"Uomini politici che affrontavano la realtà. Lo stampo è perduto".

L'avversario che più gli stava sullo stomaco?

"Bettino Craxi. Provava fastidio fisico".

E con Visentini, il futuro aspirante ds?

"Rapporti tempestosi. Negli anni '70, richiesto da Agnelli, Visentini stava per accettare la presidenza della Confindustria, ma voleva ugualmente candidarsi al Parlamento, gli disse mio padre. Visentini si piegò rinunciando alla Confindustria. Ma restò la ruggine. Come poi si vide".

Cioè?

"Poco prima di morire il 26 marzo'79, mio padre divenne vicepresidente del governo Andreotti, Dc, Pri, Psdi. Chiese a Visentini di assumere il Bilancio. Con una lettera chilometrica, Visentini declinò. Il ministero gli pareva inadeguato ai suoi meriti, il governo condannato a vita breve. Dietro c'era forse lo zampino di Scalfari: Visentini collaborava a Repubblica, ostile al governo. La replica di mio padre fu di due righe: "Sono sbalordito, pur essendo abituato a tutto o quasi. Hai perduto una grande occasione per servire il Paese"".

Vero che suo padre fu finanziato dai servizi per sconfiggere in congresso Randolfo Pacciardi, contrario al centro sinistra anni '60?

"Pacciardi, che ne avrebbe avuto interesse, non disse mai che La Malfa si era rivolto ai servizi. Ma indica l'asprezza dello scontro. Non si riappacificarono. Lo feci io. Pacciardi rientrò nel Pri e pronunciai io la sua orazione funebre".

Tra le stranezze di suo padre il testardo rifiuto di introdurre la tv a colori in Italia. Alla faccia del mercato.

"Voleva dirottare i risparmi alle infrastrutture piuttosto che alle amenità. Ancora oggi in Sicilia, su 1500 chilometri di ferrovia, solo la metà è elettrificata e 1350 sono a binario unico. Il problema non è il ponte sullo Stretto, ma quello che trovi ai lati. Per i 300 chilometri di strada tra Ragusa a Cosenza, ci ho messo cinque ore e venti. Col ponte ci avrei messo cinque ore e dieci".