Intervista a Umberto Veronesi/Potenziare la ricerca, in Italia ancora troppo oscurantismo

Dalla parte di chi soffre, contro i nemici della scienza

di Katia Mammola

"Io sono diventato laico anche perché ho scelto di non liberarmi delle mie responsabilità individuali"
Umberto Veronesi,
L'ombra e la luce. La mia battaglia contro il male, 2005

Extra ordinem: ovvero fuori dal consueto. E' quel che viene da pensare, quasi un riflesso condizionato, quando lo si incontra di persona. Un appuntamento ­ a Milano, alla direzione scientifica dell'Istituto Europeo di Oncologia - che lui fa apparire la cosa più naturale del mondo con la semplice eleganza della domanda rivolta, nel correre degli anni, a migliaia di persone: "cosa posso fare per lei"? Ha fatto tanto il professore Veronesi, ha coagulato nello "spazio di un mattino" la capacità del dare e l'umanità profonda dell'essere.

Difficile trovare un attacco idoneo a scrivere di una intervista con lui: di "multiforme ingegno", la molteplicità degli argomenti offerti alla conversazione e la qualità del suo interloquire, vanificano ogni tentativo di privilegiarne uno. Perché è lui stesso, inevitabilmente, protagonista dell'interlocuzione, laddove il fascino della parola è frantume indistricabile del carisma dell'uomo. Gentiluomo d'altri tempi la cui pacatezza del dire contrasta, stridente, con l'inesorabile essenzialità dei contenuti: a smentire, quasi subito, la tranquillità della stanza stracolma di libri, le poltrone accoglienti e una lampada accesa sulla scrivania. Domina la scena la figura di questo ottantenne alto e diritto, decisamente bello, quella facoltà speciale di rassicurare così spesso raccontata e serbata nel cuore, come la terapia più efficace, dai suoi mille ammalati.

La libertà del laico, conquista inestimabile di un intero percorso di vita, è la sua carta di credito a fondo illimitato per "l'affermazione del bene" perché, come dice egli stesso, "prima da studente, poi da medico, da ricercatore e ancora da direttore di ospedale e persino da politico, ho scelto di sfidare il male". Ma, "per combattere il cancro non basta affrontare la malattia, bisogna anche scacciarne i fantasmi, attaccare i suoi simboli". Ecco la grande intuizione, chiave di lettura, tra le altre, dell'operato eccezionale di questo personaggio. E' lo stemma araldico a fregio dei suoi cinquanta anni dedicati alla lotta contro il cancro, "un male curabile" che non aveva temuto di sfidare senza mai vacillare nel corso della ininterrotta "battaglia contro il male". Inscindibile, sin dal primo approccio con lui, la sua dimensione di scienziato dalla veste di medico: ricerca e attività clinica trovano quella sintesi mirabile che, in ambito oncologico, sancisce la differenza. E che induce a chiedergli subito ­ con un velo di provocazione - perché, a suo avviso, in Italia la ricerca scientifica è "poca e brutta"? "Poca non v'è dubbio, brutta non direi", è la risposta secca del professore, che prosegue, senza esitazioni. "La ricerca, nel nostro Paese, si caratterizza in relazione a punte assai avanzate che riqualificano l'immagine stessa della ricerca presso la comunità accademica internazionale. Nel campo delle biotecnologie mediche l'Italia ha, indiscutibilmente, molto da offrire: si pensi, innanzitutto, alle indagini genetiche oppure ai farmaci, soprattutto a quelli deputati alla terapia dei tumori o alla cura delle malattie degenerative del sistema nervoso. Lo stesso vale per le acquisizioni nel campo dell'immunologia. Certo, il settore della ricerca, in special modo quella pubblica, va potenziato. C'è oscurantismo, in Italia; non è maturato un atteggiamento di fiducia, di apertura e, fatto non trascurabile, la Chiesa osteggia la ricerca quando questa attiene alle scienze della vita: così, siamo bloccati sul fronte delle cellule staminali o, peggio, per ricorrere alla fecondazione assistita occorre recarsi all'estero".

In breve, sono organizzazioni private come l'Istituto San Raffaele-Telethon o l'Istituto Europeo di Oncologia a mantenere alto il nostro "orgoglio euristico" e Veronesi lo sa bene, così come è perfettamente consapevole dei grandi mali che affliggono la ricerca nostrana e che annoverano la carenza, se non addirittura l'assenza, di incentivi sino al vuoto legislativo che, in misura sostanziale per la promozione delle biotecnologie, complica la situazione: ne è esempio significativo la triste conclusione, per esaurimento dei fondi, del programma del "rientro dei cervelli" varato a suo tempo dal Miur.

"Le scienze fisiche, dal canto loro - mormora Veronesi - con il dissennato rifiuto del nucleare, hanno perso buona parte dell'autorevolezza che era illustre retaggio della nostra scuola. Eppure l'utilizzazione della tecnologia nucleare a scopi pacifici per produrre energia elettrica pulita ed a basso costo, rappresenta la prerogativa fondamentale di approvvigionamento energetico in grado di garantire autonomia di sviluppo e rilancio economico." Competitività sostenibile, per utilizzare i terribili neologismi di significato oggi tanto abusati, verrebbe da suggerire al Professore. Ma lui incalza e rammenta le campagne di stampa ­ quasi una crociata a tutela del consumatore sprovveduto - nonché l'ostracismo dell'opinione pubblica a proposito dei famigerati Ogm.

La colpa, se di colpa si può parlare di una realtà difficile, è ascrivibile magari alla gestione politica. "Fermate la scienza, è il messaggio che, da parte di molti, sembra si voglia fare passare, quasi questa fosse il primo di tutti i guai che affliggono l'umanità", fa eco Veronesi che riprende, senza modificare l'intonazione armoniosa della voce, "è fuorviante seppure talora inevitabile, tornare con la memoria alla bomba atomica. E' appannaggio della storia: certamente Fermi, con il suo Metallurgical laboratory sotto le gradinate dello stadio dell'università di Chicago ("Jim, sarai contento di sapere che il navigatore italiano è approdato poco fa nel Nuovo Mondo": così il fisico Compton comunicò, secondo il gergo concordato, all'ateneo di Harvard che la nuova arma era pronta, n.d.r.) fu l'ideatore incolpevole di uno strumento che avrebbe condotto alla immane tragedia e quando Hitler ne programmò la realizzazione, gli Stati Uniti furono costretti a bruciare le tappe. Questo non è sorprendente per chi ha vissuto, come me, quel periodo giacché Hitler era realmente il grande terrore degli anni quaranta.

Rimangono, comunque ingiustificabili al giudizio dei posteri, i motivi che spinsero alla scelta di obiettivi civili, Hiroshima e, successivamente, Nagasaki, anziché di bersagli militari la cui distruzione avrebbe avuto lo stesso effetto deterrente, quali che fossero le necessità imprescindibili di porre fine al conflitto. Se l'obiettivo della ricerca dell'epoca era quello di arrivare prima di Hitler, bene: quell'obiettivo era stato raggiunto. Occorreva tenerla da parte, la bomba, non farla più esplodere; occorreva pensare a cosa sarebbe accaduto. Del resto, si bombardavano città inermi: anche gli inglesi avevano distrutto Dresda e i tedeschi avevano iniziato a colpire Londra. E' molto difficile entrare adesso nella logica di quel periodo; tuttavia sganciare le testate nucleari è stato un errore, la guerra era già vinta. Tutto questo lo dico, in senso vagamente metaforico, per chiarire che l'odierno movimento antiscientifico non ha basi solide, però è cavalcato da conservatori".

La scienza fa paura a tutti, anche agli esponenti politici, professore...

"Ci sono uomini di centro liberi di pensiero, razionali; naturalmente scienza e fede non vanno d'accordo per definizione. Fede significa credere ciecamente, in contrapposizione al principio di razionalità. Scienza e fede sono quindi inconciliabili ideologicamente: si può trovare, direi, un terreno comune di intesa. Se il rischio esiste non si deve imputare alla scienza, bensì alla volontà dell'uomo, all'uso buono o cattivo che l'uomo può fare del suo intelletto".

Rimando al volo di ritorno la riflessione e vado ad un fatto di cronaca evocato dalle ultime frasi di Veronesi. E' di questi giorni la notizia che il Presidente Bush è pronto ad esercitare il diritto di veto ove il Senato dovesse approvare la legge che amplia i criteri per il finanziamento pubblico destinato alla ricerca sulle cellule staminali. Ciò avverrebbe per la prima volta in sei anni e sta già suscitando la contrarietà di ricercatori e pazienti favorevoli, contro la linea della Casa Bianca, a ricerche che potrebbero domani salvare la vita ai malati di cancro, di Alzheimer, di Parkinson, di diabete. Non la stupisce, Professore?

"Per niente, Bush non è gli Stati Uniti. Bush è Bush; rappresenta i piccoli associazionisti ed in fondo noi non abbiamo il diritto di recriminare visto che la nostra legge è passata con un referendum, cioè con una pronuncia popolare e non come atto legiferativo del Parlamento. Con la differenza che Bush si è dichiarato contrario alla utilizzazione degli embrioni per estrarne le staminali ma è possibilista circa l'uso degli embrioni che sono congelati nei frigoriferi. Sono gli embrioni destinati a morire ad essere buttati ­scusi la volgarità - nel lavandino: questa è la loro fine perché, normalmente, dopo dieci anni sono destinati ad essere distrutti. Allora, il buon senso vorrebbe che, un minuto prima di buttarli via, si consegnassero ai ricercatori per le loro ricerche. 30.000 embrioni, in Italia, consentirebbero un enorme balzo in avanti alla ricerca sulle cellule staminali. Paradossalmente, noi teniamo a farli vivere questi embrioni - sia pure sotto forma di cellule che possono aiutare a vivere i malati di Parkinson, di Alzheimer, di cirrosi epatica, di diabete o di infarto - mentre, in fondo, altri tra cui la Chiesa, li vuol far morire. Siamo noi, dunque, "per la vita" di questi embrioni, la scienza è per la vita: il suo fine è far vivere le persone. La procreazione assistita è per dare la vita e figli alle coppie sterili che non ne hanno. D'altra parte, è sufficiente andare a Bellinzona, dove esiste un grande centro, nato dopo la legge, presso cui lavorano medici italiani: è una situazione triste e paradossale".

La selezione degli embrioni, Professore: lei come convincerebbe chi l'ascolta che siamo ben lontani dalle frontiere dell'eugenetica?

"L'eugenetica era nata, come idea, all'inizio del secolo e si proponeva di migliorare il genere umano, attraverso la selezione, da una generazione all'altra, dei caratteri positivi, esattamente come gli agricoltori fanno con le piante. Non ha avuto seguito ed è, inoltre, stata strumentalizzata dal regime nazista per interessi di propaganda del movimento, in coerenza con la linea di assoluta follia dell'ideologia nazista che si esplicitava nella necessità di fare sopravvivere i migliori e di eliminare, in senso letterale, i peggiori. E' evidente che tutti siano contrari a questa impostazione. Quando si parla di selezione degli embrioni, invece, ci si rivolge a quelle coppie che, per un danno genetico grave rinunciano ad avere figli. Oggi, grazie alla diagnosi pre-impianto, è possibile selezionare da quella coppia un embrione che non ha il danno genetico permettendo tanto il concepimento di un figlio sano quanto di "tutelare" la specie con la sparizione del danno genetico per sempre. E' una procedura logica giacché, tra l'altro, la legge consente l'aborto allorquando venga diagnosticato un danno genetico. Ci limitiamo ad osservare: una diagnosi pre-impianto su un embrione, prima di impiantarlo, può evitare un aborto; mi sembra ragionevole e mi pare di non schierarmi affatto contro la vita. Sono contro la vita coloro che indurranno quella coppia a non aver mai figli: chi si azzarderebbe a mettere incinta una donna con il 50% del rischio di perpetuare una malformazione grave? Noi invece siamo in grado di ricorrere a quel 50% di embrioni normali".

Certo, tutto ciò si riflette sulla struttura della ricerca nel nostro Paese, ma quando si parla di lotta al cancro la si associa per antonomasia alla figura di Veronesi: quali sono gli step significativi degli ultimi venti anni?

"Direi che la vera rivoluzione è avvenuta cinque anni fa con la decodificazione del genoma dell'uomo che ha segnato l'avvio di una nuova linea di ricerca, una impostazione inedita di tipo genetico. Non genetico ­ germinale, preciso, poiché il cancro non è una malattia ereditaria e non possiamo selezionare dei geni per evitarla. Il cancro è una malattia di genetica somatica: è il Dna contenuto nelle cellule del nostro organismo che può essere alterato da un agente esterno, da un agente cancerogeno chimico, da una radiazione, da un virus o da fattori cancerogeni diversi, i quali agiscono inducendo una mutazione in una qualunque cellula tra i miliardi del nostro organismo. Ecco, sapere adesso qual è la costituzione genica ­ non genetica - delle cellule tumorali che originano da questa mutazione è di enorme aiuto per la ricerca, perché ogni gene produce una proteina e noi, identificando le proteine anomale prodotte da queste cellule tumorali, possiamo arrivare a diagnosticare precocemente la neoplasia. E' sufficiente, cioè, con un piccolissimo esame del sangue, rintracciare quella proteina e formulare una diagnosi addirittura quando sono solo poche cellule ad essere alterate. L'altra importante frontiera consiste nella messa a punto di farmaci specifici per queste proteine anomale espresse dal gene modificato: sostanze che si dirigano, selettivamente, ai recettori proteici localizzati sulle cellule neoplastiche. E' un discorso complesso ma rappresenta un'apertura gigantesca nella ricerca contro il cancro. Si tratta di ricerche difficili, lunghissime, costosissime, che bisogna testare sull'uomo. D'altra parte, non possiamo sperimentare direttamente sull'uomo: dobbiamo prendere tutte le precauzioni possibili con un lavoro paziente che ci regala finalmente i primi risultati".

Quando sarà possibile passare dalla sperimentazione alla cura?

"La ricerca translazionale è un esempio di come dal laboratorio si debba passare rapidamente in corsia per utilizzare subito le nuove scoperte. Ed è questa la ragione per cui ho creato questo Istituto dove, al terzo piano, sono collocati i laboratori ed al secondo piano si trovano i pazienti. Quindi, basta scendere una rampa di scale con un foglietto in mano. La ricerca ­ mi riferisco a quella oncologica perché in altri settori le cose cambiano - deve essere sempre clinically oriented, orientata al paziente: noi studiamo con attenzione questa interazione. Noi mandiamo dal secondo al terzo piano frammenti di tessuto tumorale, frammenti di tessuto normale omologo, sui quali vengono eseguiti esami di ogni tipo oppure i campioni vengono tenuti in congelatore per anni. Viceversa i risultati ottenuti da queste cellule - che vengono coltivate in provetta e seguite in laboratorio - tornano al piano inferiore".

Siete già in grado di identificare le staminali tumorali?

"No, ancora no. Possediamo molte informazioni e confidiamo di arrivarci perché le staminali tumorali rappresentano una delle tante linee di indagine scaturite dalla ‘rivoluzione del Dna'. Sono cellule infide che si mescolano perfidamente in mezzo alle altre cellule tumorali e non hanno una caratteristica morfologica particolare. Abbiamo individuato già dei marcatori che ci permettono di identificarle. Ma se riconoscerle su un terreno di coltura sarà facile, ben più complicato sarà identificarle all'interno di un tumore che sta crescendo. Bisognerà trovare un tracciante che ci dica dove sono e quali sono. Questo ci consentirebbe di individuarle, di curale o di distruggerle: di distruggere loro, selettivamente, rispettando le cellule staminali normali che assicurano la proliferazione nei tessuti".

In che cosa consistono i vaccini terapeutici anticancro?

"Ma non ci sono efficaci vaccini anticancro: vi si ricorre, con grandi difficoltà, per alcuni tumori quali i melanomi. Il cancro è una malattia che nasce all'interno di noi e non è riconosciuta dal sistema immunitario come un estraneo. Un virus, un batterio, un impianto, un organo trapiantato sono riconosciuti come not-self ed il sistema immunitario si mobilita per isolarli, ucciderli o rigettarli: invece, il tumore viene accettato come un buon compagno di viaggio da parte dell'organismo, perché non ha, sotto il profilo immunologico, caratteristiche diverse".

Ed in tema di carcinoma mammario qual è l'ultima frontiera?

"Sono diverse le frontiere aperte al momento. Innanzitutto a livello diagnostico: vogliamo ottenere diagnosi sempre più precoci e sempre più di massa. Realizzeremo questo obiettivo quando isoleremo un marcatore nel sangue, come avviene per i tumori della prostata, laddove il PSA ci indica se c'è una proliferazione nascosta. A livello terapeutico le novità di rilievo sono inerenti al rispetto della qualità della vita della paziente. Perché se una donna sa che può affrontare questa malattia conservando un'integrità corporea che le permetta una vita normale a livello di coppia ed una vita di relazione ancora intatta, è stimolata a partecipare alle campagne di diagnosi precoce. Al contrario, se prevale la convinzione che, la scoperta di una piccola neoplasia, verrà ‘punita' con una grande mutilazione - la mastectomia - la popolazione femminile non è certamente invogliata a sottoporsi ad alcun controllo".

La considerazione del malato come persona è, da sempre, la sua grande battaglia a livello sanitario…

"Noi ci occupiamo solo di tumori mentre la sanità ha molte patologie da affrontare: basti pensare al disagio mentale ed alla grande riforma Basaglia che ha decretato la chiusura dei manicomi. In Italia dovremmo rifare tutti gli ospedali o almeno una buona parte: più piccoli, dinamici, più orientati al paziente. La prima rivoluzione da fare dovrebbe garantire una camera singola ad ogni malato che deve poter ricevere i parenti dalla mattina alla sera. L'ora di visita in un ospedale è inammissibile e li paragona alle prigioni.

Il diritto alla riservatezza è inalienabile per tutti ed ancor più prezioso per un ammalato: la promiscuità deve essere eliminata una volta per tutte. E la cultura medica ospedaliera deve cambiare in fretta.

Una seconda modifica ‘strutturale' del sistema ospedaliero deve tener conto della diffusione di diagnosi precoci di massa. Bisogna lentamente superare l'odierna unità dell'ospedale che fa diagnosi e che fa anche terapia verso una sistema di centri di pura diagnosi, a portata di mano, distribuiti capillarmente nella popolazione, affinché chiunque voglia verificare il proprio stato di salute possa farlo in maniera semplice ed immediata: solo così l'accesso alla diagnosi precoce può diventare stile di vita. Questo sistema impone ospedali che, invece, fanno solo terapia e verso i quali ­ è chiaro - ci si può spostare anche di centinaia di chilometri, per farsi curare. Quindi, occorre separare i due corpi, diagnostico e terapeutico: questa è la seconda grande riforma. Noi qui, pur con una malattia complessa come il cancro, realizziamo una degenza media inferiore ai tre giorni, di 2,9 giorni contro gli otto giorni, spesso ingiustificati, degli ospedali. Il posto occupato diviene posto ‘alberghiero', non ospedaliero: la soluzione (ed è la terza riforma) è che ogni ospedale debba avere vicino un albergo convenzionato, a basso costo, solo per il paziente, dove, il giorno dopo l'intervento o qualche giorno dopo, viene trasferito. Con un costo che è un decimo rispetto ai costi ospedalieri, (perché non ha bisogno dei tre turni di guardia, di quelli notturni, di tutto l'apparato, insomma): e rimane lì fino a quando il medico non gli dice che può tornare a casa sua.

Sono soluzioni semplici ma sono anche atti coraggiosi, di rottura, che richiedono un grande sforzo di investimento in immediato: dopo verranno i risultati, anche economici, straordinari. Gli Stati Uniti vanno in questa direzione - anche se penalizzati dal potere delle assicurazioni private - ma soprattutto altri Paesi, come Australia e Canada: è la via che porta ad una qualità sanitaria eccellente ed a basso costo".

Un'altra prigione, però, esiste, oltre quella degli ospedali e lei lo ha ricordato spesso: è quella del dolore. A suo tempo, lei aveva alleggerito la legislazione sull'uso degli oppiacei: perché non si riesce ad abbattere questo muro? Lai ha scritto: nessuno vuole morire se gli si evita l'esperienza del dolore…

"Il migliore antidoto all'eutanasia è curare bene i malati terminali. Credo che il nostro ministro attuale voglia fare un'operazione molto semplice: poter prescrivere la morfina con un ricettario normale. Io avevo liberalizzato la morfina alla quale si accedeva tramite procedure quasi impossibili. Però non ho fatto in tempo ad adottare la soluzione finale che è anche la più semplice: la prescrizione su un ricettario normale degli oppiacei per i quali, attualmente, necessita un ricettario diverso. E ciò induce nel medico la paura di fare qualcosa oltre la legge. E' assurdo… Oggi per combattere il dolore nel malato grave non c'è altro che somministrargli la morfina…"

Ma questa situazione ­ secondo lei - chiama in causa, in qualche modo, un po' di responsabilità della classe medica?

"Un po' tanta: siamo il Paese che consuma meno morfina nel mondo. Ma non un pochino meno: un decimo della media mondiale".

E' vero che la marijuana, potrebbe essere utilizzata nella terapia del dolore?

"Certo, tutti gli oppiacei o i simil-oppiacei hanno effetto sedativo. La morfina, tuttavia, ha il vantaggio di eliminare, oltre al dolore fisico, anche l'angoscia; toglie il disagio percettivo del malato terminale legato all'angoscia del suo futuro, alla paura di morire, all'isolamento, all'emarginazione sociale, alla solitudine. In queste condizioni, il malato cosa può fare? Chiede al medico di togliergli di mezzo, subito, una vita invivibile".

Professore, sono state volutamente provocatorie le sue dichiarazioni di qualche settimana fa circa la liberalizzazione completa delle droghe?

"Sono convinto che sia una cosa ragionevole. Il proibizionismo non ha mai risolto niente. La droga certamente la dobbiamo combattere in tutte le maniere, ne sono profondamente convinto: ma il proibizionismo…"

Professore, affido l'ultima domanda alle agrobiotecnologie.

"L'uso della genetica è insostituibile per migliorare il mondo vegetale e l'agricoltura in particolare. E' possibile ottenere, con interventi semplici in laboratorio, grandi risultati pratici: si pensi alla lotta contro i parassiti o alla selezione di piante resistenti alla siccità. E si può ‘mangiar bene' con la scienza: invece, è radicato l'equivoco che ‘naturale significhi comunque ‘sano e buono' quasi che la natura fosse portatrice di istanze etiche o indice di riferimento: sono i nostri valori, il riferimento. Noi dobbiamo portare benessere alla gente, per cui spesso il richiamo alla natura o ai cibi biologici non è che uno slogan commerciale. Alle piante dovremmo dare ciò che serve loro: una innocua zolletta d'azoto vale una montagna di letame "biologico" senza gli agenti inquinanti che questo comporta. Ma non si può, bisogna tornare al letame! Questa è la cultura del progresso scientifico di questo povero Paese: e lei si lamenta che c'è poca ricerca…"

Il tempo, prezioso, a nostra disposizione è scivolato via: a porre fine al colloquio è il telefono che ricorda, implacabile, come la sala operatoria attenda il professore per un ennesimo, ben più prezioso, intervento. Conclude senza fretta Veronesi, un sorriso di scusa, accenna appena al camice bianco che indossa sopra la divisa verde della pratica chirurgica. Ci avviamo alla porta mentre un dubbio si insinua prepotente: avrà scoperto l'acqua della fata dell'Alba, quella che, nella fantasia di bambini, garantiva l'eterna giovinezza. Nel salutarlo è impossibile trattenersi e l'ultima domanda viene fuori semiseria: professore, forse ha qualche novità da comunicarci riguardo al gene P66, il gene della longevità isolato nel suo Istituto ed il cui allontanamento dal Dna allunga la vita e migliora la salute? Il suo P66 che fine ha fatto? "Oh vede, dice lui, troppa fatica: dovrei eliminarlo da ogni singola cellula...". Come dire, il professore l'ipotesi non la scarta aprioristicamente, anzi comincia d'istinto a valutarne le difficoltà di attuazione. Non sarebbe Umberto Veronesi. Mi allontano con la sensazione di essere una privilegiata. Sono entrata nel tempio del cancro senza la croce della disperazione che la maggior parte delle volte accompagna questo viaggio e, da donna, posso considerare la pienezza del dono che le donne hanno ricevuto da quest'uomo. Il rispetto dell'integrità fisica a fronte della devastazione del passato, una qualità della vita che la rende degna di essere ancora vissuta, l'esempio costante della coerenza di vita di uno scienziato umanissimo che ha voluto intraprendere, contro il cancro, una ricerca (ancora venti anni fa definita "perdente") semplicemente "perché si può dare o ricevere qualcosa fino all'ultimo istante della nostra vita".