Svimez: rapporto 2004 sull’economia del Mezzogiorno. Pubblichiamo il discorso di Giorgio La Malfa pronunziato durante la presentazione/Gli scenari sono mutati: oggi è in questione lo stesso sviluppo industriale del settentrione. Il che finirà inevitabilmente con l’aggravare la situazione già compromessa del nostro Sud Servono strumenti innovativi per coordinare gli incentivi e le risorse che sono disponibili E’ distribuito in questi giorni il "Quaderno Svimez" n. 28, dicembre 2004, dedicato al "Rapporto 2004 sull’economia del Mezzogiorno". A Roma, presso la sede dell’Abi, la Svimez ha presentato il suo tradizionale rapporto dedicato all’economia del nostro meridione. E’ seguito un dibattito cui hanno partecipato Giorgio La Malfa, Antonio Bassolino, Ettore Artioli, Nino Novacco, Gianfranco Miccichè. Riproduciamo di seguito l’intervento del Presidente del Pri. di Giorgio La Malfa La strategia di sviluppo del Mezzogiorno, in tutto il nostro dopoguerra, è stata quella di estendere alle regioni meridionali un processo di sviluppo solido come quello che investiva le regioni del Nord. Tutta la premessa, da cui nasce la riflessione meridionale del secondo dopoguerra, è che c’è uno sviluppo dell’Italia settentrionale di cui, in qualche modo, bisogna far beneficiare le aree del Mezzogiorno. Il problema che sta emergendo oggi, il più preoccupante della situazione economica italiana, è che cominciano a nascere dei dubbi se non sia in questione lo stesso sviluppo dell’Italia del Nord. Il dottor Padovani parlava del problema del declino industriale; molti economisti si interrogano se ci sia una situazione di declino dell’Italia industriale e cioè dell’Italia del Nord. Perché, se questo problema dovesse avere consistenza, se ci fosse un rischio di questo genere, allora ovviamente i guai del Mezzogiorno diventerebbero ancora più grandi. Bisogna dunque cominciare a riflettere su questo primo aspetto: qual è la condizione di fondo dell’economia italiana. Una flessione molto rilevante Il dato più impressionante da questo punto di vista è la flessione molto rilevante che ha avuto la quota del commercio internazionale italiano nel corso di questi anni, un declino dal 5% al 3,5%, mentre la Francia e la Germania, altri due Paesi che hanno condizioni di modesta crescita economica, non hanno subito questa perdita relativa nell’ambito del commercio internazionale. Quindi c’è una crisi del sistema produttivo del nostro Paese: è il dato dal quale bisogna partire. E’ una crisi lunga, che viene da lontano. Il resto sono illusioni politiche: che si possa trattare di un cambiamento di governo, che il governo precedente era meglio, due governi fa era meglio, tre governi fa era meglio, e così via. Il problema della crisi del modello di sviluppo italiano è un dato lontano: basta pensare alla scomparsa delle grandi imprese industriali, come si legge nel libro di Gallino su questo tema: non c’è l’Olivetti, non c’è la Montedison, e molto indebolita c’è la Fiat, non c’è più la Pirelli, non c’è più la grande siderurgia, non c’è più nulla, pubblico o privato. La grande impresa italiana è scomparsa. E’ rimasta una serie di piccole e medie imprese. Ci siamo "divertiti" a dire che questa era la spina dorsale del nostro sviluppo, ma, in realtà, tutto ciò era ormai il fondo del problema. Una crisi che parte dagli anni Sessanta E’ la nostra una crisi che comincia alla fine degli anni ‘60, probabilmente collegata agli errori compiuti in quel momento: vale a dire il non essere riusciti a spostare il baricentro dell’Italia industriale dal nord al Mezzogiorno, dove vi era un’ampia un’offerta di manodopera. Per fare qualche esempio: la decisione del raddoppio di Mirafiori, sostituita in ritardo con la decisione di costruire l’Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, e quindi la decisione della Fiat di concentrarsi nel Nord. In realtà, se noi andiamo a guardare i problemi del Nord, si vede che si tratta di problemi antichi. Le conseguenze che noi paghiamo sono le conseguenze che vengono da una crisi: per questo la crisi è così profonda e per questo le considerazioni del presidente Bassolino mi sembravano troppo legate all’attualità, rispetto alla drammaticità e antichità dei problemi del nostro Paese. Su questa situazione - la cui crisi è stata in realtà coperta dalla spesa pubblica - ieri il presidente del Consiglio ha detto: "Il debito pubblico, dal 1980 al 2000, è aumentato di 8 volte". E’ un giudizio statisticamente corretto, ma in parte quel debito pubblico ha cercato di posticipare una crisi economica. In realtà in quel debito pubblico ci sono i fondi di dotazione dell’IRI, c’è tutto quello che è servito o magari non è servito: c’è, insomma, una parte di questo stato di difficoltà che il Paese si è trascinato. Su questa condizione di debolezza dell’economia italiana è giunto a sovrapporsi l’euro. Dobbiamo renderci conto che per l’Italia l’ingresso nell’euro è stato una necessità e anche un vantaggio. Abbiamo dovuto fronteggiare i problemi del risanamento finanziario: se non ci fosse stato il vincolo esterno, noi oggi saremmo ovviamente sottoposti ad un giudizio internazionale sull’affidabilità del sistema finanziario e pubblico italiano molto peggiore rispetto agli altri Paesi. Quindi l’euro era inevitabile politicamente, e utile dal punto di vista finanziario, nel senso che era d’obbligo prendere quella medicina. Resta il fatto che l’euro impone all’economia italiana un regime che per il nostro Paese sarà alla lunga insopportabile. All’epoca delle periodiche svalutazioni, l’aggiustamento del cambio era giunto a far parte di un equilibrio politico e sociale del Paese. I sindacati non accettavano le politiche di concertazione e, di conseguenza, la svalutazione riproduceva condizioni di competitività che consentivano all’industria di sopravvivere. Non abbiamo cambiato i sindacati, come si è accorto ieri il presidente Montezemolo, che ha dovuto scoprire che i sindacati sono quelli che sono, e la CGIL è quella che è. Non abbiamo dunque cambiato i sindacati, mai in compenso abbiamo tolto la libertà, la flessibilità del sistema competitivo del nostro Paese. Se la cornice è rigida L’euro - ripeto - rappresenta una condizione difficilissima per i prossimi anni in Italia, perché esso è basato su una politica essenzialmente antinflazionistica, esso costituisce una cornice rigida, così come il Patto di stabilità. Ma se io dovessi scegliere che cosa sia peggio tra il Patto di stabilità e la politica monetaria, difenderei il Patto di stabilità, per quanto qualcuno lo giudichi stupido; lo difenderei se, in cambio di questo Patto di stabilità che blocca la finanza pubblica, potessi godere di una politica monetaria europea meno dissennata dello stesso Patto. Quello che è veramente dissennato, cioè, è che l’euro valga più del dollaro, non che si stabilisca che c’è un limite del 3 per cento al deficit. Ciò sarebbe ragionevole in presenza di una politica monetaria che aiutasse lo sviluppo produttivo dell’Europa, non in presenza di una politica monetaria in cui i tassi di interesse sono più alti di quelli americani, nonostante che l’America si sviluppi e noi no. E così il dollaro è più basso dell’euro, nonostante che l’America si sviluppi e noi no. In presenza di tale politica, aggiungere il Patto di stabilità vuol dire avere un doppio vincolo: ma se io ne dovessi allentare uno, terrei il Patto di stabilità, con buona pace di chi lo giudica stupido e attenuerei la politica monetaria, che mi pare veramente nefasta per l’Europa. Questo è il quadro nel quale l’Italia si trova e del quale il governo Prodi, che ebbe il merito storico di portare l’Italia nell’euro, non ebbe la più vaga consapevolezza. Non si capì, insomma, cosa volesse dire stare dentro l’euro, e credo che questa mancanza di consapevolezza prosegua nel tempo con risultati di cui l’Italia si accorgerà sulla sua pelle. La conseguenza di tutto questo la paga il Mezzogiorno. Quando la Confindustria – mi fa piacere che ci sia qui il dott. Artioli che rappresenta l’anima meridionale e, spero, meridionalista della Confindustria – con il suo presidente dice: "Toglieteci pure gli incentivi, ma toglieteci l’Irap", non dice qual è la conseguenza sul Mezzogiorno. Perché gli incentivi, buoni o cattivi, vanno in prevalenza sul Mezzogiorno. E l’Irap, buono o cattivo, lo pagano le imprese, dove ci sono le imprese, quindi al Nord. E’ una politica di cui mi rendo conto che l’industria italiana ha bisogno. Ecco perché c’è un collegamento tra il Nord e il Mezzogiorno. Mentre negli anni ‘50 e ‘60, i meridionalisti si ponevano il problema di come estendere al Mezzogiorno lo sviluppo spontaneo del Nord, oggi ci dobbiamo domandare come si fa a difendere lo sviluppo del Nord, quello che c’è, e possibilmente evitare che lo sviluppo del Nord non avvenga a danno del Mezzogiorno. Cioè che i sussidi alla competitività del Nord, che prima avvenivano attraverso la svalutazione, vengano oggi dal togliere gli incentivi al Sud. Un ministero per il Mezzogiorno E’ in questo quadro – e mi dispiace che Bassolino abbia trascurato quello che a me pare l’aspetto più importante, politicamente, del Rapporto della SVIMEZ – c’è la proposta della SVIMEZ di un Ministero per la coesione. E’ questo un punto di fondo. Io sono arrivato alla stessa conclusione mesi or sono, riflettendo sul problema del Mezzogiorno, dati alla mano: alla fine ho presentato un progetto di legge, l’istituzione di un Ministero per il Mezzogiorno. Poi ho visto che questa era la riflessione verso la quale andava la SVIMEZ. Sono convinto anche io, come diceva il presidente Annesi, che sia stato un errore fatale per il Mezzogiorno l’abolizione dell’intervento straordinario, 1992-’93, l’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno, l’eliminazione del Ministero per il Mezzogiorno. Perché non bastano le parole delle Regioni e mi preoccupa il fatto che, naturalmente, nella difesa dei poteri di autonomia, le Regioni stesse preferiscano ignorare questo problema. Ma il problema esiste. In una situazione, che è quella che ho descritto, il Mezzogiorno potrebbe diventare un elemento di forza della ripresa economica italiana. Perché è vero quello che dice il Rapporto della SVIMEZ: c’è manodopera, c’è scolarizzazione e quindi ci sono margini di attività produttiva, margini per un’offerta competitiva. Sono dunque presenti nel Mezzogiorno delle risorse. Ma affinché il quadro sia attivo, bisogna avere una politica, una politica selettiva. Che è tutto quello che leggiamo in questo rapporto che ha, secondo me, come punto focale, la creazione di una sede, nel governo, di coordinamento degli interventi della politica economica e di coordinamento delle Regioni e delle attività locali. Una condizione senza la quale la situazione è destinata a peggiorare. Necessari strumenti innovativi Quindi sono del tutto d’accordo su questa proposta politica. Per la verità, dal primo giorno, in questa maggioranza, ho cercato di comunicare al presidente del Consiglio che il problema del Mezzogiorno è un problema cruciale; ho cercato di dirgli dal primo giorno: costituisci un Ministero per il Mezzogiorno. Naturalmente, il fatto di non essere ascoltato è per me, per la mia area politica, una lunga tradizione, e quindi non mi preoccupo. Sono tornato in queste settimane ancora alla carica dicendo: guarda che questo è il problema. Chiamiamolo ministero per la Coesione, per lo Sviluppo e per la coesione, o in altro modo. Ma questo è il problema del Paese: altrimenti la pressione del Nord diventerà troppo forte. Se voi leggete il libro di De Rosa, in cui si ricostruisce la storia della politica economica italiana dal 1830 in avanti, esso fa vedere che tutte le volte che il Mezzogiorno respirava, succedeva qualche cosa nel resto d’Italia a favore del Nord. Quando il Mezzogiorno aveva bisogno del liberismo veniva il protezionismo, quando aveva bisogno del protezionismo veniva il liberismo, quando aveva bisogno della Cassa per il Mezzogiorno veniva abolita la Cassa per il Mezzogiorno, e così via. Questa condizione del Mezzogiorno come colonia, che descrive il professor De Rosa, è trattata da storico e non da politico, ovviamente. Ed è una condizione sulla quale va fatta una riflessione. Quindi, se è possibile fare uscire da questo vostro rapporto meritorio un messaggio, questo sarà quello che serve uno strumento di politica economica innovativo - come del resto voi scrivete - che riorganizzi il sistema degli incentivi, che li coordini, e così via. Secondo me tutto ciò, politicamente, è assolutamente indispensabile oggi. E’ meritorio che voi lo abbiate posto sul tavolo. Mi auguro, che ci sia un’attenzione meno distratta e meno convenzionale di quella che adesso ha dimostrato qui il presidente della principale regione del Mezzogiorno. |