Lando Conti vent'anni dopo/Un commosso ricordo del sindaco assassinato dai terroristi

Emblema repubblicano che le Br vollero eliminare

Discorso del senatore Antonio Del Pennino durante la cerimonia di commemorazione per Lando Conti, Firenze, Palazzo Vecchio, 11 febbraio 2006.

di Antonio Del Pennino

Onoriamo oggi, a vent'anni dal suo barbaro assassinio, Lando Conti. E lo onoriamo, per usare le parole di Giovanni Spadolini dopo il rito laico di saluto all'amico qui a Palazzo Vecchio il 13 febbraio 1986, come martire della libertà e della democrazia repubblicana nella lotta contro il terrorismo.

Egli fu scelto come obiettivo dai suoi carnefici perché emblematico del suo partito, di una scelta precisa sulla collocazione internazionale del nostro Paese, di una linea di intransigenza democratica verso il terrorismo che il Pri aveva incarnato sulla base dell'insegnamento di Ugo La Malfa, di cui basta ricordare il discorso alla Camera del 16 marzo 1978, in occasione del rapimento di Moro, con l'invito a non trattare mai con i terroristi.

Lo evidenziò anche nel messaggio di solidarietà e di cordoglio inviato a Spadolini l'allora Presidente della Corte Costituzionale, Livio Paladin che scrisse: "Vi è indubbiamente un nesso tra l'aver fatto parte del ‘fronte della fermezza' e l'essere vittima di un terrorismo sconfitto ma non ancora scomparso. E ne deriva per noi tutti un monito a rifuggire gli incauti ottimismi e le troppe facili indulgenze postume".

Probabilmente Lando pagò anche il fatto che in una fase in cui aumentavano i casi di dissociazione dal terrorismo, si recò da Sindaco in una sala di Tribunale per incontrare i dissociati di Prima Linea, ai quali disse che la Repubblica perdona in omaggio alle leggi della giustizia che ci hanno consentito di vincere il terrorismo, senza venir mai meno alla libertà, ma non dimentica.

E questo apparve una sfida all'ala dura delle Brigate Rosse che hanno scelto sempre uomini simbolo da uccidere.

Lando, per colpire il partito della fermezza in quel momento. Più tardi, coloro che cercavano soluzioni al conflitto sociale, come D'Antona e Biagi, quando il problema sembrò loro quello di riaprire il conflitto sociale.

In realtà, della linea della fermezza Lando era coerente difensore. Ma con uno spirito quasi ghandiano, di richiamo alla non violenza. E forse ciò lo aveva reso ancor più inviso ai terroristi.

Al congresso regionale del Pri poche settimane prima aveva richiamato il monito di Mazzini: "Io aborro – e quanti mi conoscono dappresso lo sanno – dal sangue e dal terrore come da rimedi inefficaci contro mali che hanno bisogno per essere curati soltanto dalla diffusione libera delle idee".

E l'opposizione a ogni forma di violenza e di oppressione, l'attenzione verso il problema delle disuguaglianze planetarie egli aveva sempre coerentemente manifestato.

Basta rileggere le parole da lui pronunciate nel corso del saluto di fine anno agli ospiti stranieri in Palazzo Vecchio nel dicembre 1984: "Firenze, città ospitale e aperta al mondo, non può rimanere insensibile. Le notizie dell'oppressione dell'uomo, della privazione dei suoi più elementari diritti umani, della pace sempre in pericolo e dei focolai accesi feriscono il cuore di Firenze, città che ha fatto della pace e della collaborazione tra i popoli il senso più profondo della sua vocazione storica. Purtroppo di queste notizie è stato pieno anche il 1984: dalla Polonia al Cile, dall'Afghanistan ai Paesi dell'America latina milioni di uomini hanno provato sulla propria pelle la tirannia odiosa e sanguinaria di regimi dittatoriali. Questo è stato l'anno in cui si è manifestato ancora più insostenibile il divario che divide i popoli ricchi da quelli poveri, gli uomini che spendono miliardi in diete dimagranti da quelli che muoiono di fame. Così come non possiamo passare sotto silenzio l'orribile tragedia che ha colpito di recente l'India e che sta lì a dimostrarci con il suo cumulo di vittime innocenti l'esigenza improrogabile di non scindere mai le ragioni del processo economico, industriale e scientifico dal rispetto sacro dell'uomo".

Ed era uomo del dialogo e di profonda sensibilità istituzionale. Una sensibilità istituzionale di cui oggi vi sarebbe molto bisogno.

Testimonianza di questo e dell'attenzione verso le ragioni degli altri sono le parole che rivolse all'opposizione nel discorso di insediamento come Sindaco il 28 aprile 1984. Iniziò con un non formale omaggio all'ex Sindaco che aveva rappresentato la coalizione opposta alla sua dicendo: "Rivolgo un affettuoso e cordiale saluto all'ex sindaco Elio Gabbugiani in quanto mi ha dato una lezione di stile e di correttezza che, a mio giudizio, ha lasciato indiscutibilmente una traccia a Firenze". E proseguì evidenziando che "le opposizioni hanno doveri e diritti e la maggioranza deve garantire l'esercizio pieno di questi diritti". "Dichiaro che il nostro governo contrapporrà alla cultura del declino la cultura della rinascita e per questo sarà necessario il contributo di tutte le opposizioni". "Abbiamo letto su ‘L'Unità' alcune anticipazioni su un programma che il Pci sta elaborando: lo attendiamo con interesse, perché credo che tutti recupereremo credibilità nella misura in cui si riuscirà a trasformare la rissa che stasera purtroppo ha prevalso in un confronto politico e programmatico: il nostro impegno sta in questo".

Ma vi è in quel discorso un'altra indicazione che alla luce degli eventi successivi appare quasi profetica. "Questione morale vuol dire anche difesa della certezza del diritto. Non si può evidentemente scambiare nessuno per colpevole finché non ci sono prove. Non possiamo demonizzare, né accetteremo demonizzazioni verso nessuno! tutti sono innocenti, finché non c'è la prova della colpevolezza e quindi ‘no' alla calunnia e alla diffamazione. ‘Sì' al confronto, ma ‘no', ripeto, alla demonizzazione che non è metodo di lotta politico - civile".

Ora, Lando fu scelto come obiettivo, secondo la risoluzione 21 delle BR Partito Comunista Combattente con l'accusa della sua partecipazione in un'industria di armamenti. Un'accusa ignobile che era già stata diffusa in campagna elettorale da alcuni volantini distribuiti da Democrazia Proletaria e che Lando non aveva fatto fatica a smentire dal momento che l'impresa in questione di cui egli possedeva per eredità una quota irrisoria non fabbricava armi, ma radar ed altri sistemi di avvistamento.

E ciò dimostra come quando nella lotta politica si introduce la diffamazione e la demonizzazione dell'avversario, queste possono poi per molti fanatici diventare motivo dei più efferati delitti.

Conti era un democratico esemplare e coerente. L'insegnamento mazziniano l'aveva appreso in famiglia: nipote di una vecchia figura della democrazia repubblicana, il cui ricordo è vivo ancor oggi a Firenze: Menotti Riccioli, assessore nelle prime giunte della liberazione; una famiglia la sua che ricorda un po' quella di Carlo Rosselli, legata egualmente per vincoli storici ai filoni del mazzinianesimo prima ancora che del repubblicanesimo politico.

Da quell'insegnamento aveva tratto una concezione alta della politica. Una visione in cui gli interessi generali prevalevano anche su quelli di parte pur rimanendo uomo di partito e dando al suo partito impegno e contributo di idee e di passione.

Ne è testimonianza l'esemplare esperienza di sindaco: un modello di probità, di dedizione, di costante servizio alla cosa pubblica.

Mi sia consentito in proposito di chiudere con un ricordo personale che credo dia una dimensione dell'uomo.

Nel periodo in cui egli era sindaco, io ero vicesegretario nazionale del partito e avevo la responsabilità degli enti locali. E in più di un'occasione lo sollecitai ad impegnarsi nel settore per dare al partito il suo autorevole contributo di esperienze e di idee e per rappresentarlo a livello delle realtà associative. La sua risposta sorridente e gentile fu sempre la stessa. "Fin quando farò il sindaco, il mio contributo è di dedicarmi tutto alla mia città. Sono uomo di partito. Ma in questa fase appartengo a Firenze. Il mio aiuto te lo darò quando avrò concluso questa gravosa ma esaltante esperienza. Oggi il mio dovere è non distrarmi dai problemi della mia città".

In queste parole sentivo tutto il suo amore per Firenze.