Discorso pronunziato dal segretario nazionale del Pri, Francesco Nucara, durante la cerimonia di commemorazione della Repubblica Romana che si è tenuta l'8 febbraio a Forlì

Giuseppe Mazzini, l'attualità di un moderato

9 febbraio 1849 - 9 febbraio 2004. Questi centocinquantacinque anni scanditi su quel calendario della storia che parte dalla seconda metà del XIX secolo per arrivare a questo inizio di terzo millennio, sono il tempo che è trascorso da quando altri depositi si sono accumulati sulla "collina sulla quale noi ci leviamo". E' l'immagine che uno scrittore americano, John Dos Passos, ha usato per spiegare che il presente si nutre di un passato che porta in sé i germi di nuovi virgulti, lungo il processo di una storia che è sempre storia presente. Presenti, e più che mai attuali, sono i valori e gli ideali che la Repubblica di Mazzini affermò in Roma nell'ultimo anno della prima metà dell'Ottocento, quando, in piena restaurazione dopo la sconfitta di Novara, essa fu l'esempio e la guida della rivoluzione italiana.

Nel mondo globalizzato della terza rivoluzione industriale, quello dell'informatica, la scienza che ha permesso all'uomo di spingersi fino all'esplorazione di Marte, il principio di laicità affermato all'Assemblea romana è un punto di non ritorno di quel processo che ha liberato la scienza e la ricerca dalle pastoie dei dogmi e delle verità precostituite. Quelle dell' "ipse dixit" che costarono il rogo a Savonarola e il processo a Galilei.

Ma il laicismo di Mazzini, sottolineò don Luigi Sturzo nei giorni del centenario della Repubblica romana, in occasione dell'inaugurazione del monumento a Mazzini sull'Aventino, non era privo di spiritualità, giacché, continuava il fondatore del Partito popolare, "la sua era una politica fondata sulla moralità".

Nella stessa occasione un altro grande cattolico liberale, Alcide De Gasperi, che di don Sturzo fu il successore alla testa del partito dei cattolici, ricordò che Mazzini, entrato in Roma dopo che l'Assemblea costituente aveva fissato nello Statuto fondamentale che "il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale", nulla fece per opporsi a tale formula o per svuotarla". "Anzi - ancora parole di De Gasperi - nel suo discorso all'Assemblea del 9 marzo, evitò tutto ciò che poteva dividere e cercò appassionatamente tutto ciò che poteva unire".

Gli storici, unanimi, ci dicono che in quel discorso Mazzini fece appello ai romani perché dimostrassero, con il loro esempio, che il patriottismo non era ostile alla religione. Avrebbero dovuto mostrare al mondo esterno che nella loro Repubblica potevano coesistere la libertà e l'eguaglianza. La libertà di coscienza e la libertà di parola erano diritti di cui tutti dovevano godere; nella Repubblica romana non doveva esserci posto né per l'intolleranza né per l'odio fra gli avversari politici ma soltanto uno sforzo comune volto alla conquista dell'indipendenza nazionale. Citando Cromwell, esortava i propri ascoltatori a "riporre la loro fede in Dio e a mantenere asciutte le polveri".

La moderazione di Mazzini e il suo rispetto verso la religione cattolica stupirono quanti - ed erano quasi tutti - lo consideravano un settario e un visionario. Si rivelò invece, per equilibrio e moderazione, uno statista di prim'ordine. E in un'esperienza di governo di appena cento giorni diventò l'uomo più popolare d'Europa, suscitando invidie fra i moderati, compreso il conte di Cavour, che reclamò anche lui la fine della Repubblica romana. Mazzini e Garibaldi furono gli attori principali di quello che lo storico inglese Trevelyan chiamò "uno dei grandi spettacoli della storia". Uno spettacolo che smentì in alcuni fatti d'arme fra i più fortunati e più eroici del Risorgimento la vulgata diffusa in quei giorni dai giornali francesi: "gli italiani non si battono".

Scrive Denis Mack Smith nella sua biografia di Mazzini che "la Repubblica romana lasciò agli uomini politici di quelle generazioni una eredità ancora più preziosa: la memoria di Roma condusse la lotta per la difesa della propria indipendenza (...) A Roma - sottolinea Mack Smith - Mazzini aveva intorno a sé un gruppo di patrioti che avrebbero avuto molta importanza nella sua vita successiva e che ora contribuirono a creare quella che sarebbe stata, per i posteri, una leggenda imperitura". Una leggenda ricca di una testimonianza di fede e di martirio che è l'epifania stessa, nel significato greco di "apparizione", della Repubblica come tale. Nel senso di quella "res publica" che Mazzini intendeva come governo del popolo.

Nella leggenda della difesa di Roma, accanto ai nomi di Mazzini e Garibaldi, che nella fuga verso Venezia perse la sua Anita, spirata in una cascina qui intorno, c'è il lungo elenco dei nomi di quella memoria repubblicana che costituisce una delle pagine più fulgide del riscatto nazionale.

Una memoria fissata nel marmo in cui sono scolpiti i volti dei martiri, - letterali "testimoni" - di quella leggenda. Nella corona marmorea che orna le pendici del Gianicolo, sulla cui vetta dominano, scolpite nel bronzo, le statue equestri di Garibaldi e della sua sposa, manca la statua di Mazzini, posta appunto sull'Aventino, al centro del piazzale dedicato a Ugo La Malfa.

Quando nel 1949 si inaugurò il monumento dell'Aventino, il "Comitato nazionale per le onoranze a Giuseppe Mazzini" pubblicò un volume che raccolse scritti e testimonianze di politici e intellettuali di diversa estrazione. Accanto ai già citati nomi Sturzo e De Gasperi, ne sfilarono altri 224, da Einaudi a Salvemini, da Parri a Ruini, da Conti a Perassi, per citarne solo alcuni. E' stato fatto osservare che fra questi nomi si distinguono alcuni grandi assenti, e in modo particolare, i leader di quella che allora era la sinistra di classe, reduce dalla bruciante sconfitta del Fronte popolare del 18 aprile ‘48.

Oggi, sullo sfondo di un paesaggio geo-politico che non è più quello della "guerra fredda", quell'assenza non avrebbe più senso. E non l'avrebbe perché la sinistra, quella che vuol essere la sinistra riformista di governo, crollato il comunismo, con il lungo corteo dei suoi orrori e dei suoi crimini, è alla ricerca di nuovi riferimenti e di nuovi "padri fondatori" nei cui nomi coniugare il binomio giustizia e libertà.

Giuseppe Mazzini, che già Bettino Craxi cercò di condurre accanto a Garibaldi, nel pantheon di un partito socialista che ripudiava Marx, dopo averlo sostituito con Proudhon, è la figura che più di ogni altra può colmare il grande vuoto.

Nell'incompiuto bipolarismo italiano il nome di Mazzini può servire anche alla destra nel senso di quella pacificazione nazionale, dove sinistra e destra, respinti i demoni dei radicalismi contrapposti, devono trovare valori comuni per quella riscrittura delle regole volte a fare dell'Italia una democrazia europea. Alla sinistra servono i valori della nazione per rompere definitivamente quello che Massimo D'Alema chiamò l' "assordante silenzio" segnato dal crollo del comunismo; e alla destra che ha scoperto i valori della democrazia con la denuncia del "male assoluto" dei totalitarismi che hanno insanguinato l'Europa in quello che è stato chiamato il "secolo breve", è Mazzini che può parlare dell'attualità del principio di nazionalità, inteso come rispetto di altre identità nazionali da far coabitare nell'edificio della nuova Europa.

Democrazia e nazione sono i due termini sublimemente intrecciati nel messaggio dell'apostolo dell'unità italiana. Sono appunto i due termini che portarono il fondatore della "Giovine Italia" e il tenace organizzatore delle prime società operaie ad uscire, nel 1864, dalla prima Internazionale, consumando a sinistra quel primo strappo cui ne seguiranno molti altri. Strappi che possono leggersi nello stesso codice genetico del comunismo, profeticamente avvertito da Mazzini fin dal 1850, ossia a due anni dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels, come "la più tremenda tirannide che l'uomo possa ideare sulla terra".

Nel 1871, un anno prima della morte, Delio Cantimori, il maestro di Renzo De Felice, da annoverare tra i più importanti "profeti della nazionalità", così spiegava la sua rottura con la prima Internazionale: "Questa Associazione, fondata anni addietro a Londra e alla quale io ricusai fin da principio la mia cooperazione, è diretta da un Consiglio, anima del quale è Carlo Marx, tedesco, uomo d'ingegno acuto ma, come quello di Proudhon, dissolvente; di tempra dominatrice, geloso dell'altrui influenza, senza forti credenze filosofiche o religiose e, temo, più elementi d'ira, s'anche giusta, che non d'amore nel cuore".

La rottura si consumò nella difesa del principio di nazionalità anteposto da Mazzini rispetto alla stessa concezione liberale, in quanto aveva chiara la possibilità di antitesi tra libertà e nazionalismo. "La religione della patria è santissima - scriveva - ma dove il sentimento della dignità individuale e la coscienza dei diritti inerenti alla natura di un uomo non la governino - dove il cittadino non si convinca che egli deve dar lustro alla patria, non ritrarlo da essa - è religione che può far la patria potente, non felice; bella di gloria davanti allo straniero, non libera".

Ecco perchè deprecava il "gretto spirito di nazionalismo, sostituito a quello della Nazione", ed auspicava un ordinamento internazionale che significasse "la divisione dell'Umanità in nuclei affratellati in un intento comune, indipendenti nella scelta dei mezzi che devono raggiungerlo".

E' la Repubblica dell'uomo, dove patria e umanità si intrecciano nel rispetto delle varie funzioni indicate dalle condizioni geografiche, dalle lingue, dalle credenze, dalle tradizioni storiche. Sono requisiti essenziali della concezione democratica della nazionalità: quella che farà dire a Jean Jaurés, uno dei grandi leaders del socialismo francese della prima metà del Novecento, che "la Nazione é il solo bene dei poveri". La nazione si fa così punto di incontro in cui Mazzini, teorico della nazionalità, diventa anche teorico della democrazia, nella proiezione di quel processo che ha portato il socialismo occidentale, in opposizione alla versione rivoluzionaria del radicalismo giacobino, a farsi moderato, rifiutando la lotta di classe e la dittatura del proletariato.

Un riformismo, che in opposizione al suo fratello nemico, il socialismo rivoluzionario, vuole imporre regole al mercato, e promuovere compensazioni in termini di sicurezza e di protezione. E' il modello che in opposizione a ciò che l'ultrasinistra chiama "sfruttamento capitalista", si è imposto nei principali paesi dell'Europa occidentale, essenzialmente dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni settanta del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle.

E' il riformismo che il Partito Repubblicano, rifiutando la lotta di classe, ha identificato con la politica dei redditi di Ugo La Malfa, che accoglie largamente l'ispirazione mazziniana in termini di aggiornamento ad una realtà in continua trasformazione.

E' l'evoluzione che ha fatto la modernizzazione della società dell'Europa occidentale, cui si è aggiunta in seguito la Spagna post-franchista. Nell'Europa del secondo dopoguerra il riformismo gradualista ha saputo inserire i diritti sociali nello sviluppo della produzione e dei consumi. In un quadro dove lo Stato, nel rispetto dell'economia di mercato, ha guidato lo sviluppo economico, sforzandosi di stabilire un relativo equilibrio fra le esigenze della produttività e della competitività delle imprese e le rivendicazioni salariali.

Un orientamento così forte che si è imposto anche ai governi di centro-destra: nella Francia gollista, così come nell'Italia a predominio democristiano; per non parlare dell'economia sociale di mercato della Germania di Adenauer e dei suoi successori, compresa la parentesi social-democratica di Helmuth Schmidt, o dell'Inghilterra laburista, dal piano Beveridge al riformismo di Tony Blair.

Certo, la globalizzazione dell'economia impone oggi forti correzioni all'economia di ispirazione keynesiana, ed è qui che si misura il nuovo riformismo, che ormai accomuna la destra e la sinistra nella consapevolezza che non è più lo Stato a pilotare l'economia, ma sono le imprese la fonte di creazione della ricchezza sociale. La mutazione attuale del capitalismo nel senso di quella flessibilità che esige nuove regole nel diritto del lavoro e della protezione sociale, pone il nuovo riformismo dinanzi a sfide corrispondenti ai nuovi modi di organizzazione della produzione, così profondamente trasformati rispetto al passato.

Ecco perchè i due riformismi, quello di destra e quello di sinistra, sono chiamati a confrontarsi su un nuovo compromesso sociale. Quello di destra, che è ispirato alle potenti dinamiche economiche e tecnologiche, va nel senso di rimettere in discussione le protezioni acquisite, ma con il rischio di cadere nel capitalismo selvaggio; quello di sinistra si scontra invece con l'antiriformismo dell'ultrasinistra che, come osserva l'ex presidente della Commissione europea, il socialista Jacques Delors, fa il gioco, con le sue "frasi assassine", dei suoi avversari dell'ultra destra.

E' qui che la lezione di moderazione cui Giuseppe Mazzini informò tutta la sua vita può idealmente costituire il punto d'incontro di quel nuovo compromesso sociale che fece dire a Luigi Salvatorelli, a chiusura del suo scritto in occasione del primo centenario della Repubblica romana, che "se nell'ultimo terzo del secolo decimonono Marx aveva sconfitto Mazzini, nella seconda metà del ventesimo Mazzini supera definitivamente Marx".

A maggior ragione, Giuseppe Mazzini può considerarsi nell'Italia di un maggioritario che ancora si cerca, quello che un repubblicano storico come Randolfo Pacciardi, definiva punto di riferimento comune di "una destra che si è conciliata con la Repubblica e di una sinistra che ha scoperto la nazione".

Anche questo è il senso del messaggio che ci viene dalla leggenda della Repubblica romana.

E' stato per me quasi impossibile parlare della Repubblica romana senza cadere nella tentazione di svolgere questo breve intervento su Mazzini. Egli è caro ai repubblicani dopo più di centotrenta anni dalla sua morte per le battaglie che condusse tutta la vita a favore dei poveri (scuola di Londra) e della sua nazione.

Come già accadde a Mazzini, considerato "visionario" nel perseguimento dei suoi sogni "repubblicani", anche noi, come Partito Repubblicano Italiano, in questo interminabile periodo di transizione continuiamo a vivere tradimenti e a subire slealtà.

Saranno forse le generazioni future a capire i sacrifici e anche i compromessi che quotidianamente dobbiamo fare con noi stessi per tenere alta e fulgida la stella del nostro piccolo partito.

E' per questo che chiudo con l'epitaffio che Carducci stilò per la morte di Giuseppe Mazzini.

Al passaggio del feretro alla stazione di Bologna il poeta verga un'iscrizione su un foglio che passa di mano in mano dove c'era scritto: "Giuseppe Mazzini, dopo quarant'anni d'esilio passa libero per terra italiana. Oggi che è morto, o Italia quanta gloria e quanta bassezza e quanto debito per l'avvenire".