"La Stampa" 20 febbraio 2003/Tra guerra e pacifismo, il delicato ruolo del Vaticano "Iraq, la mossa della Chiesa" di Giorgio La Malfa Un articolo della Stampa dei giorni scorsi ricordava che, nel pieno della crisi fra Usa e Urss seguita all'installazione dei missili sovietici a Cuba, un intervento di papa Roncalli contribuì alla soluzione della crisi fornendo a Crusciov l'appiglio mediante il quale ripiegare dignitosamente ed evitare il rischio, fattosi vicinissimo, di un conflitto nucleare. Può quel lontano precedente spiegare lo straordinario attivismo dispiegato dalla Santa Sede sul problema iraqeno: la missione del cardinale Etchegaray in Iraq, l'occasione offerta a Tarik Aziz di una prolungata presenza in Italia ed infine il sostegno e l'incoraggiamento da parte di numerosissime associazioni cattoliche alla manifestazione per la pace di sabato scorso a Roma? Può cioè considerarsi che evitare una guerra contro l'Irak contribuirebbe al mantenimento degli equilibri internazionali, così come avvenne nel 1962 dopo la crisi di Cuba? Mentre sono convinto che, riuscire ad allontanare un conflitto militare che appare assai probabile, sarebbe per la Chiesa un risultato di straordinaria importanza, ho molti dubbi che si possano istituire dei paragoni fra il 1962 ed oggi. Allora, l'arretramento dell'URSS sollecitato da papa Roncalli, contribuì a salvaguardare un equilibrio internazionale che l'azione dell'Unione Sovietica rischiava di alterare drammaticamente. Oggi, sono legittimi e doverosi dei dubbi sul fatto che l'Iraq sia veramente disponibile al disarmo e che non utilizzi, come è avvenuto dal 1991 in avanti, il tempo guadagnato per ricostruire gli arsenali militari che la comunità internazionale gli impone di demolire. Il rischio insito nelle iniziative di pace e nelle stesse grandi manifestazioni popolari fondate su questo appello è che l'Iraq interpreti come un segno di debolezza da parte della comunità internazionale la rinunzia ad una azione di forza. Se così fosse, la guerra non verrebbe evitata, ma soltanto rinviata. In realtà, bisogna realisticamente convenire che è la permanenza di Saddam Hussein al potere in Iraq a costituire di per se stessa un fattore di destabilizzazione dell'area mediorientale ed un ostacolo ad una pace autentica e credibile. Il regime di Saddam non ha solo invaso militarmente due Stati confinanti, ma svolge attualmente e rivendica una funzione di sostegno al terrorismo anti-israeliano, alla quale non avrebbe domani ragione di rinunciare. La conferma indiretta ma significativa di un perdurante atteggiamento antisemitico è venuta dalla nella conferenza stampa di Tareq Aziz in Italia, che fa pensare come l'Iraq non intenda assumere un atteggiamento pacifico. Anzi, vi è da temere che eventuali concessioni fatte all'ultimo momento da Saddam Hussein alla comunità internazionale per evitare un'azione militare, lo spingerebbero ad investire il suo residuo prestigio nell'unica lotta che gli garantirebbe di restare un punto di riferimento per le masse arabe a cui si rivolge dal tempo della guerra del Golfo: quella contro lo Stato ebraico. In Iraq è in giuoco la situazione complessiva del medio Oriente, Per questo non possiamo permetterci il rischio che una guerra scongiurata dalla porta rientri in maniera altrettanto devastante dalla finestra. Ritengo che questi elementi, dei quali il dibattito emotivo sulla guerra non tiene conto, facciano parte integrante dell'insieme di considerazioni politiche che gli Stati Uniti hanno preso in considerazione in questi mesi, sapendo – e spero che l'Europa su questo sia d'accordo – che in nessun caso si può accettare il punto di vista di una parte del mondo arabo per il quale la presenza dello Stato di Israele in Medio Oriente costituisce un arbitrio e deve quindi essere considerata provvisoria. Due giorni fa, a Bruxelles, l'Europa ha trovato una buona posizione comune. Essa è basata sull'obiettivo e sulla speranza di evitare la guerra, ma anche su una riaffermazione netta e circostanziata delle serie conseguenze che subirebbe l'Iraq qualora esso non ottemperasse alle deliberazioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Sostanzialmente l'Europa è stata unanime nel concludere che, pur non auspicandolo, il ricorso alle armi possa essere reso inevitabile dal comportamento del dittatore iracheno. Sarà molto interessante comprendere quale sia esattamente la posizione della Chiesa Cattolica rispetto alle conclusioni del Consiglio Europeo. Essa prenderà atto che la via della pace assoluta "senza se e senza ma" che sembrava avere prescelto non è condivisa dall'Europa? Esprimerà, magari implicitamente, un giudizio di condanna per questa scelta? Oppure riconoscerà che il governo italiano è riuscito, come pure auspicava l'Osservatore Romano "a non sfaldare l'atlantismo " e ha ricucito, "il filo con i paesi europei"? Dato il peso della Chiesa cattolica nelle vicende politiche dell'Italia, sono interrogativi che meritano di essere sciolti al più presto. Ma non c'è dubbio che, anche per la Chiesa, come per tutti i leader politici, non è facile far coincidere le posizioni apparentemente popolari con le esigenze che scaturiscono da una riflessione approfondita sui problemi mondiali. |