Intervista al ministro delle Politiche Comunitarie/Garantita la governabilità La Malfa: possibile recuperare i consensi persi alle regionali Avremmo voluto un articolo del presidente del Partito repubblicano per commentare la formazione del nuovo governo. I particolari impegni di questi giorni hanno consentito la realizzazione di questa intervista, mentre Giorgio La Malfa si recava a Milano, insieme al senatore Del Pennino, per rendere l'omaggio dei repubblicani alla festa della Liberazione. Onorevole La Malfa, con la sua nomina a ministro delle Politiche Comunitarie, il Pri è entrato a pieno titolo nella maggioranza. Questo è avvenuto però in un momento particolarmente critico della coalizione, in cui i rapporti politici fra le varie forze appaiono deteriorati, e la stella di Berlusconi in declino. Non sarà troppo tardi? La mia idea è che siamo ancora nelle condizioni di poter recuperare. Il clima del 2001, quando il centrosinistra perse le regionali, era molto diverso. Allora si avvertì che gli italiani si stavano orientando verso un progetto politico. Berlusconi rappresentava la proposta di un'economia più libera e di una maggior iniziativa privata che aveva sedotto gran parte del ceto medio del nostro Paese. Meno tasse, perché meno Stato, inteso come riduzione degli sprechi, era quasi una prospettiva rivoluzionaria. In questo quadro anche la proposta federalista significava, come è giusto, come prevedeva Carlo Cattaneo, maggiore indipendenza dallo Stato centrale, con i suoi difetti ed i suoi costi. E c'era una simpatia evidente della maggioranza della popolazione italiana in questa direzione. Lo stesso D'Alema ne prese rapidamente atto, perché convinto, fino a quel momento, di rappresentare, lui ed il suo governo, la maggioranza degli italiani. Le elezioni regionali del 2005 non hanno certo questo significato. Sono il segno di una delusione profonda, ma non l'adesione ad un nuovo corso politico alternativo, per la semplice ragione che questo nuovo corso politico non c'è. Manca del tutto. Questo vuole dire che il centrosinistra vince finché è diviso, e può solo restare tale? La richiesta di elezioni anticipate che hanno fatto è sintomo di panico. Sembra quasi che abbiano avuto l'impressione di scoprire come la loro vittoria regionale possa dissiparsi a breve. Perché definire il nuovo governo "balneare", non è una previsione, è un desiderio. C'è da capirli: se messi di fronte alla preoccupazione di tracciare che cosa fare, essi non ne escono. Si è visto dalla reazione di Bertinotti all'apertura fatta da Prodi verso Monti. Sanno bene di non avere un'idea comune su niente, dall'economia alle coppie omosessuali. L'incompatibilità ideologica all'interno del centrosinistra è molto più profonda di quella che si è vista fra la Lega e Alleanza Nazionale. Però Prodi sembra essere vincente e la stella di Berlusconi appare declinare. Non ha avuto l'impressione che una parte della maggioranza volesse dare il benservito al Cavaliere? Senza Berlusconi, non è che finirebbe solo il centrodestra, ma anche il bipolarismo. Finirebbe anche Prodi. La mia idea è che il meccanismo dell'alternanza è più lungo. Guardate Clinton, è durato otto anni. E Blair è ancora in corsa, ma anche la Thatcher ha rappresentato un decennio. Ma a volte la storia si contraddice. Sta a noi evitarlo. Se la maggioranza riesce a recuperare uno spirito costruttivo ed affronta quest'anno non come l'ultimo della legislatura, ma il primo di quella successiva, esiste un ampio margine per recuperare la fiducia degli italiani. Certo, dovremo sperare in una situazione economica più favorevole di quanto possa esserlo stata quella dal 2000 ad oggi. Ma, anche in situazioni difficili, la presenza repubblicana può aiutare. Intanto sarà opportuno che An e Udc ritrovino lo spirito collaborativo che hanno saputo dimostrare a lungo nell'interesse della governabilità del Paese. La governabilità del centrodestra viene accusata come capace di mettere in questione il processo europeo. Un esponente della Cgil ha perfino definito la nomina di La Malfa, con quella di Tremonti, "uno schiaffo all'Europa". Se c'è qualcuno che dovrebbe avere il pudore di tacere su questi argomenti è proprio la Cgil e la parte politica che rappresenta, che si è opposta a tutti i trattati europei. Io mi ricordo di quando sostenevano che la Ceca era un complotto degli americani. Noi rappresentiamo una tradizione che si batteva per l'Europa, quando la Cgil aveva ad esempio il modello sociale dell'Unione sovietica. Però una critica al processo europeo da parte di La Malfa, prima ancora che venisse raccolta dal centrodestra, c'è stata. Questo è un altro discorso. Criticare l'Europa perché non commetta degli errori, o perché, se li ha commessi, li corregga, è una prerogativa di chi ha sempre sostenuto il processo di integrazione. Il governo ha cercato di collaborare in questi anni, nonostante avesse una visione problematica di alcune questioni. Ad esempio l'esigenza dello sviluppo e della crescita sacrificate a vantaggio della stabilità. I timori inflazionistici della Banca Centrale rappresentano un freno alle esigenze di ripresa dei Paesi membri. Non crede che un "no" nel referendum della Francia alla Costituzione, manderebbe tutto a gambe all'aria? Vorrei evitare di amplificare un eventuale "no" francese. In fondo la Costituzione Europea unisce contro di sé una destra nazionalista ad una sinistra antiliberista, che potrebbero insieme anche avere buon gioco in una campagna referendaria. Se non si fosse voluto chiamare Costituzione quello che è in fondo un nuovo trattato, il cammino sarebbe stato più facile. L'Europa di vicoli ciechi ne ha imboccati diversi negli anni, ma ha sempre saputo uscirne. La stessa Francia si è mostrata spesso un ostacolo alla costruzione europea. Basta pensare al 1954, quando il Senato francese respinse il Trattato europeo di difesa. Ma già un anno dopo, nel '55, il processo di integrazione si aperse sul terreno economico. Quando nel '64 De Gaulle mise un veto all'Inghilterra, l'Europa sembrò finire. Invece ora l'Inghilterra ne fa parte. L'ho detto in un intervista alla "Stampa" di sabato scorso: Il treno europeo non si ferma, semmai riparte da un altro binario. Non teme la minaccia di tante piccole patrie, un rimbalzo nazionalista per una scommessa persa? Francamente no. Il vaccino contro il nazionalismo è stato preso in dosi massicce. Forse il sogno di Spinelli, degli Stati Uniti d'Europa, oggi non è realizzabile, viste le tante differenze sociali e linguistiche. Stanley Offman sostiene che un'unione federalista verrebbe vissuta come il soffocamento dello Stato nazionale. Ma io resto convinto che sul tempo del processo storico vedesse bene Benedetto Croce, quando nella sua "Storia d'Europa" scrive che un giorno francesi, tedeschi, italiani, spagnoli saranno consapevoli di essere tutti europei. La presenza del Pri nel governo è piuttosto il segnale di una politica italiana volta e rinsaldare i legami atlantici? Certamente. L'Europa è l'altra gamba della comunità atlantica, non una gamba dialettica. Questo è un problema che si è evidenziato purtroppo con la guerra in Iraq. Ma il quadro è cambiato: vi è l'esigenza di assicurare un futuro democratico e di stabilità ad un Paese che esce dalla dittatura. Anche in base all'esperienza del nostro continente del passato, non si possono voltare gli occhi dall'altra parte. Le posizioni tenderanno a coincidere. L'Italia e impegnata e si impegnerà per questo. A proposito dell'esperienza del nostro continente, il 25 aprile si festeggia l'anniversario della Liberazione. Albertini voleva evitare le bandiere rosse. E perché mai? La bandiera storica del Pri è rossa. E Milano è la piazza del Partito d'Azione con Riccardo Lombardi prefetto della città nel '45. Ma anche quelle comuniste hanno un diritto di rappresentanza. Io sono d'accordo con Cossutta che ci ricorda che senza il Pci non ci sarebbe stata la Liberazione e che le formazioni comuniste diedero un contributo importante per la sconfitta del fascismo e del nazismo. Non si può non riconoscerlo. Come non si può non riconoscere che senza gli altri, azionisti, cattolici democratici, liberali e anche monarchici, l'Italia avrebbe corso il rischio di passare da una dittatura ad un'altra. La differenza sostanziale fra comunisti e democratici nei confronti dell'antifascismo è quella della doppia legittimazione. I secondi, fra cui i repubblicani, lottarono perché l'Italia fosse libera anche dalla minaccia della dittatura sovietica, che negli anni '50 era un timore concreto, reale. Il grande tradimento che i comunisti hanno compiuto nei confronti dei giovani che combatterono sotto le loro insegne era verso questa promessa di libertà. Lo stalinismo non la mantenne nei Paesi che restarono sotto la sua diretta influenza e controllo. Le tradizioni democratiche, la presenza americana, salvarono due volte il nostro Paese. |